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articoli di approfondimento e recensioni di film
𝐈 𝟏𝟐𝟓 𝐀𝐍𝐍𝐈 𝐃𝐄𝐋 𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀, 𝐈 𝐑𝐈𝐓𝐈 𝐂𝐎𝐋𝐋𝐄𝐓𝐈𝐕𝐈, 𝐋𝐀 𝐏𝐀𝐍𝐃𝐄𝐌𝐈𝐀 𝐄 𝐋'𝐈𝐏𝐄𝐑𝐂𝐎𝐍𝐍𝐄𝐒𝐒𝐈𝐎𝐍𝐄
di©Gianni Caminiti -28 dicembre 2020
Il 28 dicembre 1895 a Parigi venne proiettato per la prima volta in pubblico, primo di una serie di dieci piccoli film, il famosissimo documentario (un falso Docufilm) “𝐥𝐚 𝐬𝐨𝐫𝐭𝐢𝐞 𝐝𝐞 𝐥'𝐮𝐬𝐢𝐧𝐞 𝐥𝐮𝐦𝐢𝐞̀𝐫𝐞 𝐚̀ 𝐥𝐲𝐨𝐧”. Tutti inferiori al minuto.
Come per il telefono e altre grandi invenzioni la nascita del cinema è contesa da un piccolo frammento di film, di poco meno di 3 secondi (2 secondi e 11 frames), girato da 𝐋𝐨𝐮𝐢𝐬 𝐀𝐢𝐦𝐞́ 𝐀𝐮𝐠𝐮𝐬𝐭𝐢𝐧 𝐋𝐞 𝐏𝐫𝐢𝐧𝐜𝐞 a soli 12 fps, la metà di quelli oggi proiettati nei cinema.
Nel Guinnes dei primati questi 35 fotogrammi del 1888 di “𝐑𝐨𝐮𝐧𝐝𝐡𝐚𝐲 𝐆𝐚𝐫𝐝𝐞𝐧 𝐒𝐜𝐞𝐧𝐞” sono i primi filmati ma non furono proiettati in pubblico*.
Si è scelta la data dei 𝐋𝐮𝐦𝐢𝐞̀𝐫𝐞 per celebrare la nascita del cinema perchè quella del 28 dicembre 1895 fu la prima 𝐩𝐫𝐨𝐢𝐞𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐩𝐮𝐛𝐛𝐥𝐢𝐜𝐚, 𝐜𝐨𝐧 𝐬𝐩𝐞𝐭𝐭𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐩𝐚𝐠𝐚𝐧𝐭𝐢, 𝐫𝐢𝐮𝐧𝐢𝐭𝐢 𝐢𝐧 𝐮𝐧𝐚 𝐬𝐚𝐥𝐚.
Un rito collettivo. Il primo cinematografico.
La prima “𝐏𝐫𝐞𝐦𝐢𝐞𝐫𝐞”.
Raccontare per immagini, poi per suoni, poi a colori, poi a 3d-4D-...XD è stata la mission del cinema. Da quei primi frammenti ad oggi di strada dal punto di vista tecnico, di tecnica della narrazione, dei generi, ne è stata fatta tantissima e mi sembra francamente inutile parlarne qui.
Quello su cui vorrei confrontarmi con voi e conoscere la vostra opinione mentre ricordiamo questa data, è il futuro dei riti collettivi.
In generale.
Che si tratti di teatro, cinema, concerti live, conferenze o addirittura riti religiosi quella che è messa in discussione oggi è la 𝐬𝐨𝐩𝐫𝐚𝐯𝐯𝐢𝐯𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐫𝐢𝐭𝐨 𝐜𝐨𝐥𝐥𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐨.
Non è a causa, almeno non solo, di ciò che sta accadendo per via del Covid-19.
La vigilia di Natale, un cortometraggio scritto da me, prodotto da Synapsy e coprodotto da cineSmania, e diretto insieme all'amico Andrea Basile, dal titolo “𝐀 (𝐧𝐨𝐭 𝐬𝐨) 𝐒𝐢𝐥𝐞𝐧𝐭 𝐍𝐢𝐠𝐡𝐭”, raccontava proprio il Natale del 1920, alla fine dell'epidemia spagnola che, come oggi, vietava i riti collettivi.
Non ci sono pressochè persone viventi che possano ricordare (una signora di 107 anni in realtà si è ammalata ed è sopravvisuta ad entrambe) ma alla fine di quella tremenda pandemia, il numero stimato di morti oscilla tra i 50 e i 100 milioni, gli esseri umani i riti collettivi tornarono a farli, pian piano, magari all'inizio con diffidenza. In breve ritornarono gli eventi collettivi e si arrivò a Woodstock, ai multisala gremiti, ai teatri affollati.
Come prima.
Persone a scarsa connessione necessitavano di eventi collettivi per essere in connessione emotiva con gli altri.
Oggi la pandemia rischia di dare un ultimo colpo, quello mortale, ai riti collettivi.
Un attacco inziato da tempo con le piattaforme di streaming audio e video e dai social network.
Chiarisco subito che le piattaforme e i social NON sono il male. E, per esempio, il video di Natale di cui ho detto sopra è uscito esclusivamente su queste.
Il rito collettivo è però altro.
Le persone non si recano in un cinema, in un teatro o in uno stadio solo per fruire al meglio di una esperienza, senz'altro anche, ma per fruire anche di una emozione condivisa. Amplificata dal rito collettivo.
Un mito della storia del cinema è che a quella prima proiezione sia stato proiettato anche Arrival of a Train at La Ciotat, che provocò la fuga delle persone impaurite. Di quel film nel programma di quella proiezione del 1895 non c'è traccia, fu proiettato a gennaio 1896, e forse quella reazione delle persone è solo “mitologia” ma resta un buon esempio dell'amplificazione emotiva del rito collettivo.
Per la mia limitata esperienza come regista ma ben più lunga come musicista e conferenziere, posso affermare che preparare uno “spettacolo” per un rito collettivo è una cosa molto diversa che prepararlo per un pubblico online.
Quest'anno per esempio ho declinato tutti gli inviti a realizzare conferenze come Psicologo (una cinquantina abbondante all'anno) in streaming.
Sarà forse un mio limite ma non sono in grado di fare lo stesso (lo stesso?) servizio senza il feedback reale delle persone, sguardi ma anche senza le loro risate ed emozioni.
So che il mio film, Ombra e il Poeta, prima o poi sarà fruibile su una piattaforma streaming video, senz'altro, ma so bene che non è nato per quella.
Fare teatro in un teatro è diverso da riprendere attori a teatro con telecamere e mandarlo in TV (anche se il ministro Franceschini la pensa diversamente, evidentemente).
Fare conferenze davanti a 500 persone non è la stessa cosa che stare davanti ad una webcam in una zoom o meet collettiva.
Fare concerti davanti a 10.000 persone che pogano non è la stessa cosa che ascoltare musica su Spotify.
La mia riflessione, quella su cui vorrei confrontarmi, è questa.
Il rito collettivo così come lo conosciamo è messo solo parzialmente a rischio dalla pandemia.
E' più fortemente a rischio per via dalla immobilità che tutti, chi più chi meno, abbiamo ricevuto come premio per la nostra iperconnessione.
* La proiezione pubblica, programmata negli USA, non avvenne mai perchè Louis Le Prince sparì in modo misterioso da un treno nel 1890.
nelle foto. 3 fotogrammi di "A (not so) Silent Night"
"Siamo in missione per conto di Dio"
40 ANNI DI "THE BLUES BROTHERS"
di©Gianni Caminiti -20 giugno 2020
Il 20 giugno 1980 è stata la data di rilascio ufficiale in oltre 600 sale negli USA di 𝑻𝒉𝒆 𝑩𝒍𝒖𝒆𝒔 𝑩𝒓𝒐𝒕𝒉𝒆𝒓𝒔, film eccezionale di 𝑱𝒐𝒉𝒏 𝑳𝒂𝒏𝒅𝒊𝒔, scritto a 4 mani con 𝑫𝒂𝒏 𝑨𝒚𝒌𝒓𝒐𝒚𝒅.
In Europa invece uscì a Novembre dello stesso anno.
Unica rappresentazione “pubblica” prima di quel 20 giugno fu 4 giorni prima in quella 𝑺𝒘𝒆𝒆𝒕 𝑯𝒐𝒎𝒆 𝑪𝒉𝒊𝒄𝒂𝒈𝒐 cantata nel film, omaggio alla città in cui si svolgono gli eventi.
Uffa, le date certe sono sempre un problema nell'arte.
The Blues Brothers è stato uno straordinario film, letteralmente un fuori quota, una commedia comica a tratti grottesca a pieno tema musicale zeppa di star della musica del calibro di 𝑹𝒂𝒚 𝑪𝒉𝒂𝒓𝒍𝒆𝒔, 𝑨𝒓𝒆𝒕𝒉𝒂 𝑭𝒓𝒂𝒏𝒌𝒍𝒊𝒏 e 𝑱𝒂𝒎𝒆𝒔 𝑩𝒓𝒐𝒘𝒏.
L'accoppiata della pellicola, 𝑫𝒂𝒏 𝑨𝒌𝒓𝒐𝒚𝒅 - 𝑱𝒐𝒉𝒏 𝑩𝒆𝒍𝒖𝒔𝒉𝒊, è entrata per sempre nella storia del cinema e del costume internazionale.
Questa pellicola non è stata solo una fenomenale passerella musicale ma anche un film spettacolare, di azione.
Pensate che la scena del mega incidente stradale ha visto coinvolte un numero di auto straordinariamente alto. 103 auto irrimediabilmente distrutte. In quel momento fu il record per auto distrutte in una sola scena. Landis era un fanatico delle scene con distruzione reale delle automobili e credo che anche oggi, con tutta la Computer Grafica e gli effetti speciali a disposizione, preferirebbe girarla ancora così. Con auto vere che saltano e si accartocciano comicamente l'una sull'altra.
Beh, nel secondo capitolo del film, 18 anni dopo, ha preteso di distruggerne, naturalmente in una sola scena, almeno una in più. E furono 104!
Il film fu stroncato all'uscita dalla critica.
Francamente, non so cosa abbiano guardato per stroncarlo.
Forse un rough cut?
Un video di backstage?
O forse i critici di allora si facevano di qualche sostanza allucinogena?
Mah, incomprensibile.
A meno che la cosa sia molto più semplice.
Sì dai. È la solita storia. E' la stroncatura assestata a chi non si allinea.
Beh, il tempo a volte è galantuomo e rimette a posto le cose.
Così anni dopo, nel 2004, è stata dichiarata in un sondaggio della BBC, 𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐥𝐨𝐧𝐧𝐚 𝐬𝐨𝐧𝐨𝐫𝐚 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐛𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐜𝐢𝐧𝐞𝐦𝐚.
E' una musica che ti trasporta fisicamente mentre contemporaneamente non puoi fare a meno di sorridere. Tutte le volte che una cover band parte con brani come “𝑺𝒘𝒆𝒆𝒕 𝑯𝒐𝒎𝒆 𝑪𝒉𝒊𝒄𝒂𝒈𝒐”, “𝑬𝒗'𝒓𝒚𝒃𝒐𝒅𝒚 𝑵𝒆𝒆𝒅𝒔 𝑺𝒐𝒎𝒆𝒃𝒐𝒅𝒚”, “𝑺𝒐𝒖𝒍 𝑴𝒂𝒏” non puoi resistere alla tentazione di dimenarti e sorridere come un ebete, tanto è coinvolgente.
Io ne ho fatta diretta esperienza in due band musicali da 10 e 11 elementi. Appena attaccavi col repertorio dei BB e degli strani cugini “negri” irlandesi dei “𝐓𝐡𝐞 𝐂𝐨𝐦𝐦𝐢𝐭𝐦𝐞𝐧𝐭𝐬, la gente letteralmente impazziva!*
Ma, ok la musica. Ma “The Blues Brothers” non è solo musica.
E' un film raffinatamente demenziale, e essere raffinati e demenziali è roba da gente che sa scrivere, con scene e battute che sono entrate nell'immaginario collettivo: la già citata scena dell'incidente stradale con coinvolte centinaia di auto della polizia, le comiche scuse di John Belushi sotto tiro della ex fidanzata, le battute come “𝒔𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒊𝒏 𝒎𝒊𝒔𝒔𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒄𝒐𝒏𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝑫𝒊𝒐” e “𝒊𝒐 𝒍𝒊 𝒐𝒅𝒊𝒐 𝒊 𝑵𝒂𝒛𝒊𝒔𝒕𝒊 𝒅𝒆𝒍𝒍'𝑰𝒍𝒍𝒊𝒏𝒐𝒊𝒔” sono entrate nella storia del cinema.
E, con buona pace di chi in quei giorni recensiva pomposamente film che oggi nessuno nemmeno si ricorda di aver visto, questa allegra ciurma se ne va in giro da 40 anni con smalto intatto.
C'è un terzo personaggio principale in questo film accanto a 𝐉𝐚𝐤𝐞 ed 𝐄𝐥𝐰𝐨𝐨𝐝.
Ah, la 𝐁𝐥𝐮𝐞𝐬𝐦𝐨𝐛𝐢𝐥𝐞!
E' la prima a presentarsi al pubblico nella scena inizaile.
Ecco l'immagine che ho scelto per ricordare questo film.
La prima scena del film.
Elwood va ad accogliere Jake all'uscita del penitenziario con la nuova Bluesmobile, un'auto dismessa dalla polizia presa ad un'asta dopo che la vecchia Bluesmobile, una cadillac, era stata barattata con un microfono.
Eccola, quell'auto, ferma davanti alle porte del carcere che si aprono e Jake che esce in piena silhouette, vestito come era entrato 3 anni prima.
Una scena che sembra essere la prosecuzione del finale del film di 𝐒𝐩𝐢𝐞𝐥𝐛𝐞𝐫𝐠 di “𝐈𝐧𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐢 𝐫𝐚𝐯𝐯𝐢𝐜𝐢𝐧𝐚𝐭𝐢 𝐝𝐞𝐥 𝐭𝐞𝐫𝐳𝐨 𝐭𝐢𝐩𝐨” di...esattamente tre anni prima.
Gli extraterrestri in silhouette e i rapiti dagli alieni vestiti come decenni prima.
Quel film del 1977 si chiude con un uomo, il prescelto dagli alieni, che entra in silhouette nell'astronave e tre anni dopo, nel 1980, un uomo restato per 3 anni in carcere, Jake, esce nella prima scena in piena silhouette dal carcere, con lo stesso vestito di quando vi era entrato.
Che non sia un caso che proprio Spielberg abbia partecipato al film dei BB in un cameo, come impiegato dell'ufficio delle tasse?
Amen, non lo saprò mai. Del resto, come potete ben vedere, non è necessario farsi di sostanze stupefacenti, come quei critici dell'epoca, per avere allucinazioni cinematografiche.
Torniamo alla scena.
Elwood presenta la Bluesmobile a Jake con queste parole:
“𝑴𝒐𝒕𝒐𝒓𝒆 𝒕𝒓𝒖𝒄𝒄𝒂𝒕𝒐, 𝒔𝒐𝒔𝒑𝒆𝒏𝒔𝒊𝒐𝒏𝒊 𝒓𝒊𝒏𝒇𝒐𝒓𝒛𝒂𝒕𝒆, 𝒑𝒂𝒓𝒂𝒖𝒓𝒕𝒊 𝒂𝒏𝒕𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒑𝒑𝒐, 𝒈𝒐𝒎𝒎𝒆 𝒂𝒏𝒕𝒊𝒔𝒄𝒐𝒑𝒑𝒊𝒐 𝒆 𝒄𝒓𝒊𝒔𝒕𝒂𝒍𝒍𝒊 𝒂𝒏𝒕𝒊𝒑𝒓𝒐𝒊𝒆𝒕𝒕𝒊𝒍𝒆, 𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒄’𝒆̀ 𝒏𝒆𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒃𝒊𝒔𝒐𝒈𝒏𝒐 𝒅𝒆𝒍𝒍’𝒂𝒏𝒕𝒊𝒇𝒖𝒓𝒕𝒐 𝒑𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒉𝒐 𝒄𝒐𝒍𝒍𝒆𝒈𝒂𝒕𝒐 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒊 𝒊 𝒄𝒐𝒏𝒕𝒂𝒕𝒕𝒊 𝒄𝒐𝒏 𝒍𝒂 𝒔𝒊𝒓𝒆𝒏𝒂!”
La Bluesmobile, era un'auto in uso alla polizia americana degli anni 70. Ne vennero usate e distrutte ben 12, il mito dice che una tredicesima auto, illesa perchè mai utilizzata, sia rimasta di proprietà di un familiare di Dan Aykroyd.
Anche qui i numeri non tornano. Alcuni hanno dichiarato che ne vennero utilizzate e distrutte ben 34.
Ma forse quei 12 e 13, i numeri ufficiali, non sono casuali. Sono numeri “biblici” da ultima cena che ben si sposano con “𝒔𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒊𝒏 𝒎𝒊𝒔𝒔𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒄𝒐𝒏𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝑫𝒊𝒐””.
Ma io voglio tornare indietro e fermarmi a quel fotogramma iniziale.
Perchè questa non è una recensione del film ma una celebrazione.
Quindi stasera direi che è proprio il caso di aprire il cofanetto del film che ho in libreria, inserire il DVD nel lettore e pigiare Play! Per le successive 2h e 4 minuti voglio assentarmi dal 21° secolo e da tutte le sue tecnologie e sprofondare anima e corpo, con una birra in mano, nel 1980.
Perchè vale davvero la pena di rivederlo un film così.
Del resto, quale film può permettersi a 40 anni esatti dall'uscita di essere ancora fresco come allora?
Cari amici del cinema e di questa pagina.
Ve lo devo proprio dire.
Questo film non può mancare nella videoteca personale di un 𝐜𝐢𝐧𝐞𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐜𝐨.
* La frase è una famosa citazione del fantastico film musicale "The Commitments" del 1991 di 𝐀𝐥𝐚𝐧 𝐏𝐚𝐫𝐤𝐞𝐫, già regista 𝐝𝐢 𝐓𝐡𝐞 𝐖𝐚𝐥𝐥.
“𝑮𝒍𝒊 𝒊𝒓𝒍𝒂𝒏𝒅𝒆𝒔𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒊 𝒑𝒊𝒖̀ 𝒏𝒆𝒈𝒓𝒊 𝒅'𝑬𝒖𝒓𝒐𝒑𝒂, 𝒊 𝑫𝒖𝒃𝒍𝒊𝒏𝒆𝒔𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒊 𝒑𝒊𝒖̀ 𝒏𝒆𝒈𝒓𝒊 𝒅'𝑰𝒓𝒍𝒂𝒏𝒅𝒂, 𝒆 𝒏𝒐𝒊 𝒅𝒊 𝒑𝒆𝒓𝒊𝒇𝒆𝒓𝒊𝒂 𝒔𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒊 𝒑𝒊𝒖̀ 𝒏𝒆𝒈𝒓𝒊 𝒅𝒊 𝑫𝒖𝒃𝒍𝒊𝒏𝒐, 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊 𝒓𝒊𝒑𝒆𝒕𝒆𝒕𝒆 𝒄𝒐𝒏 𝒎𝒆 𝒂𝒅 𝒂𝒍𝒕𝒂 𝒗𝒐𝒄𝒆: “𝑺𝒐𝒏𝒐 𝒖𝒏 𝒏𝒆𝒈𝒓𝒐 𝒆 𝒎𝒆 𝒏𝒆 𝒗𝒂𝒏𝒕𝒐!”
nelle foto. 3 fotogrammi della sequenza iniziale di "The Blues Brothers"
HAI MAI SBAGLIATO PORTA?
di ©Gianni Caminiti -22 novembre 2019
Una donna entra per sbaglio nell'ufficio di un commercialista credendo di entrare dallo psicanalista dello studio accanto. Si siede e, senza lasciargli modo di dire nulla, inonda lo specialista sbagliato con i problemi della sua crisi matrimoniale.
Inizia così CONFIDENZE TROPPO INTIME, un film francese del 2004, molto delicato, interamente fondato sulla parola.
"Un film come se si leggesse un libro", così lo commentai quando lo vidi anni fa.
Se non l'avete visto ve lo consiglio caldamente perchè raramente un film di sola parola ha la capacità di catturarti con l'intensità di un thriller.
Dall'incipit, lo sbaglio di pochi metri, l'infilare una porta sbagliata, poterebbe sembrare la solita commediola degli equivoci ma così non è.
E' un film intimo, con dialoghi curatissimi, anche dall'adattatore italiano, che restituiscono la delicatezza dell'accoglienza dell'ascolto profondo, quell'essere finalmente cullati in una relazione significativa.
L'esigenza di raccontarsi come allo specchio è uno dei cardini della storia.
Quel bisogno di renderti finalmente trasparente di fronte ad un terzo che però alla fine scopri essere tu stesso. Al punto che, nella finzione cinematografica, la protagonista continua a raccontarsi anche dopo aver scoperto che sta parlando della sua vita al professionista sbagliato.
Perchè, aperto un canale, esondato il fiume di parole, quel fiume non ci pensa nemmeno a ritornare nel suo alveo, argine, gabbia, catene.
Aperta la valvola della relazione profonda è troppo forte il dolore del richiuderla.
In fondo lo psicologo ha spesso questa funzione.
Un “portale” di accesso a te stesso.
Entrare nella porta giusta può significare finalmente incontrare te stesso in una nuova dimensione.
E' un tema, quello dell'incontro con lo psicologo, che ha dato origine a fortunatissime pellicole e intensa letteratura.
Anche se spesso, come anche in questo film, lo “Psicologo titolare" non ci fa una grande figura.
Vivo una piccola grande fortuna personale prima che professionale.
Ho il privilegio, come Psicologo, di incontrare profondamente l'altro da me, di conservare, come uno scrigno, segreti e dolori delle persone che mi raccontano le proprie vite e poi, come Editore e Scrittore, di poter restituire parte di questo enorme bagaglio umano in storie di finzione utili, spero, a tutti.
Mi sento davvero fortunato per questa doppia possibilità.
E non vorrei perdermela mai.
Quindi, se mai vi capiterà di venire nel mio studio, fate estremamente attenzione ai citofoni.
Nella mia via, che ha solo tre case l'una accanto all'altra, numerate come 1, 2 e 3, io sono al numero 3.
Non sbagliate!
Al numero 2 ci vive il mio commercialista.
SIETE MAI STATI IN TRENO DA SOLI?
di ©Valentina Finocchiaro - 28 ottobre 2019
Ma sì, certo!
Già può risultare imbarazzante stare in treno soli e provare quella sensazione di “essere osservati dal vicino”, che magari poi si sta facendo bellamente gli affari suoi.
Un treno affollato, oppure mediamente popolato da persone: estranei.
E allora ti affretti a tirare fuori il libro, il pc o gli appunti da studiare, perché non vuoi essere da meno e dimostrare che “sì, il treno l’ho preso ma ho mille cose da fare anche io”.
Oppure sei uno di quelli che, cellulare alla mano, infila le cuffie nelle orecchie e si estranea dal mondo.
Inevitabile guardare fuori il paesaggio che scorre: tutto molto poetico.
Ma essere in treno completamente soli?
Un treno che sfreccia, sentire il silenzio delle persone assenti ma il frastuono dei vagoni che si muovono sulle rotaie, mentre il paesaggio spoglio e triste macina migliaia di chilometri, che passano senza fermate.
Non trovare via d’uscita, chiamare a gran voce senza risposta.
Fino a perdere la voce, fino a perdere le speranze.
Senso di abbandono. Totalizzante.
Un vero incubo.
Questo è quello che ho provato per tutti i lenti minuti, che trascorrono poco dopo l’inizio del film “Lion”.
Ho seguito le vicende del bambino, che poi diventa ragazzo e cerca la sua famiglia, fino a dimenticarmi del titolo: ma perché “Lion”? A voi scoprirlo.
A me questo film ha fatto piangere.
Non la lacrimuccia che umidiccia scende un po’ sul lato dell’occhio e che asciughi velocemente al cinema per non farti vedere ma un pianto vero: liberatorio.
Una mattina, in un giorno libero, seduta in cucina da sola.
Ho seguito le vicende di “Saroo” fino alla fine, con un senso di attesa e di vuoto, colmato solo con l’epilogo.
Infine, rendendomi conto che il film mi era piaciuto particolarmente, mi sono chiesta il perché mi avesse così coinvolto, trasportandomi in un tempo e in uno spazio così altri da me.
Più di tutto mi aveva avvolto quel senso di abbandono, come d’inverno un maglione caldo ma terribilmente scomodo.
Nonostante la catarsi finale a cui avevo genuinamente partecipato, quel vuoto mi rimaneva addosso.
Quindi ho pensato: “Ma il mio di vuoto?”
E allora ho cominciato a pensare che forse anche io come Saroo, seppur magari inconsapevolmente, trascorro le giornate aspettando di tornare e dire a qualcuno “son qui”.
E nel bene o nel male, nella difficoltà del vivere un qui e ora sempre in attesa, nel domandarmi se mai quel vuoto andrà via, mi godo quel momento e penso che per me quel qualcuno è “casa”.
E per voi chi è “casa”?
COME FA UNO A SAPERE SE E' INNAMORATO DI UN'ALTRA PERSONA?
di ©Linda Foglieni - 23 ottobre 2019
Che l'amore è semplice è l'unica cosa che ho capito dell'amore.
Quando sembra difficile è perché i conti non tornano: un fallo della gelosia, un'ossessione che si mette di traverso, un gioco scorretto dell'Ego che sbrodola sulla vita dell'altro.
Ma non è l'amore ad essere difficile.
È la strada che porta all'amore ad essere un casino: quel momento in cui lo vedi per la prima volta e decidi che te lo vuoi portare a casa con te.
È un casino perché la strada che porta all'amore è una roba che ha a che fare con la comunicazione e con quella cosa lì gli esseri umani non è che ci abbiano ancora fatto pace.
Per noi nati negli anni '80, poi, la faccenda è parecchio complicata.
Veniamo da un tempo in cui per metterti in contatto con uno che ti piaceva dovevi essere un eroe del ciclo bretone che sfidava mille avversità: "Vado e la affronto faccia a faccia, GLIELO DICO", per i più temerari; "GLI TELEFONO E LO INVITO FUORI!" Per i meno coraggiosi, che però dovevano essere abili detective, armarsi di ELENCO DELLA SIP e sperare che l'altra metà del cielo non si chiamasse ROSSI.
Giornate di tentativi tipo PRONTO, CASA ROSSI?-SÌ-C'È VATTELAPESCA?-NON ABITA NESSUN VATTELAPESCA QUI, finché a un certo punto, quando VATTELAPESCA viveva finalmente lì, magari rispondeva il PADRE di VATTELAPESCA e allora doveva essere vero amore per resistere alla tentazione di buttar giù la cornetta al fatidico CHI LO DESIDERA?
LO desidero davvero? Ma chi cazzo me l'ha fatto fare... SBAM cornetta in faccia e amore finito in un TUUT TUUT TUUT.
E poi c'era l'ultima strada, quella dei sedicenti romantici, che a volte erano solo un filo cagasotto: LA LETTERA. Vergata a mano. Che nel tempo che ti convincevi a scriverla, compravi busta e francobollo, il postino la recapitava e lui si decideva a rispondere, se non era vero amore finiva che ti scocciavi e mandavi tutto a quell'altro paese.
Oggi le cose sono più semplici :
"com'è che si chiama quello lì? "
" VATTELAPESCA FERRAGNI". Butti tutto sui social e SBAM. Eccoti lì un archivio infinito di tutto quello che volevi sapere, ma non hai mai osato chiedere, e un contatto diretto con l'amore. Che è sempre Amore con la A maiuscola. Perché sui social siamo tutti più belli che nella vita reale e, se è stato amore a prima vista, la sua bacheca Instagram ti può solo confermare seduta stante che È QUELLO PER TE, FATTO APPOSTA PER TE. Fino al prossimo FATTO APPOSTA per te che contatterai in meno di 7 minuti. Più facile che trovare i calzini spaiati nel cassetto. Milioni di anime gemelle da portarsi a casa come la pizza surgelata al supermercato.
È che noialtri degli anni Ottanta non ci siamo mica ancora abituati: la comunicazione così ci spiazza. Non la sappiamo accettare la semplicità dopo tutta quella fatica.
E allora eccoci qui a trasformare i nostri antichi gesti eroici in filologia della faccina giusta, teorie e tecniche del like al momento più opportuno e Metodologia del buongiorno la mattina senza sembrare mia zia che manda le gif animate di Gesù risorto.
E alla fine, in tutto questo delirio, è impossibile non avere un po' di nostalgia per quei tempi là, in cui tutto era difficile, sì, ma le regole erano chiare e alla fine l'amore, anche quando non lo era, finiva per sembrarti quello vero.
QUANTE VOLTE SEI STATO IL PEGGIOR GIUDICE
DI TE STESSO?
di ©Gianni Caminiti - 18 ottobre 2019
Il processo giudiziario è un tema ricorrente nel cinema e nella letteratura. Soprattutto gli americani hanno da sempre amato questo genere che vede per lo più impegnati avvocati difensori che cercano in ogni modo di salvare dalla pena i loro clienti. Gli intrecci del tipico film americano vedono “spacciati” gli accusati in partenza ma, nel tipico gusto USA del finale lieto, al termine del procedimento, alla fine i loro “innocenti” assistiti sono liberi da ogni accusa.
Ovviamente molto irreale ma evidentemente è un genere che funziona perchè muove nel pubblico la sete di giustizia e la speranza intima che la verità in fondo vinca sempre. Chiaramente non è affatto così nella realtà ma quel sogno da sempre incatena gli spettatori a migliaia di pellicole.
"Un modo di realizzare questo genere, molto più asciutto e spesso senza i colpi di scena tipici dei film a lieto fine, è stato realizzato in TV.
Processo in TV per anni è significato un nome: Perry Mason, che portava in televisione lo stesso modo di fare fiction processuale a lieto fine (infatti è un difensore).
Molto più tardi, il modello che si è imposto con moltissimi anni di programmazione è più crudo: quello della serie TV Law and Order. Anche in questa serie si sprecano ovviamente le imprecisioni legali e sicuramente quello che si vede sullo schermo nulla ha a che fare con ciò che accade realmente in un procedimento ma lo stile scarno e asciutto ha dato a questa serie una impronta di “realismo” che in tempi più disincantati ha avuto un successo enorme. Non a caso, in questa serie, il processo è visto dal lato della pubblica accusa.
Le più famose opere rock, genere a noi di cineSmania molto caro, hanno al loro interno un processo.
La più celebre è certamente JC Superstar che nel brano “Trial before Pilate” mette in scena il processo a Gesù. Le parole del librettista Tim Rice, ricalcano il più possibile le parole dei vangeli.
In Pink Floyd “The wall”, nel brano “The Trial”, l'autore, Roger Waters, fa processare il protagonista, Pink, da un giudice “Verme” e mette sul banco dell'accusa la moglie e il professore delle elementari. Waters svelerà che The Wall nasce da un suo bruttissimo gesto verso un suo fan. Quando si riconobbe come altèro, infatti arrivò a sputare in faccia a un suo fan, espiò la sua colpa autoprocessandosi, poiché riconosceva che il suo essere rockstar l'aveva “rinchiuso in un una stanza irreale”.
Più celato è il processo nella rock opera, Evita. In questo caso il giudizio è nella voce del narratore, il CHE (che nell'opera rappresenta la STORIA), che mette a nudo l'arrivismo della first lady, che dai bassifondi, letto dopo letto, arriva con una scalata orizzontale ad essere la moglie di Peron. Il giudizio si conclude con la pena di morte, provocata Sì da una malattia, ma che è simbolo di una punizione più alta alla sua ingordigia.
In Notre Dame de Paris, opera finora rimasta a teatro, si assiste ad un processo, sul palco.
Anche nel film della nostra rock opera, Ombra e il Poeta, c'è un processo. Va in scena il processo alla vita del protagonista Icaro, processo irreale e interiore e per questo forse più drammatico.
Perchè tanto interesse del cinema e TV per il processo?
Credo che uno dei fondamentali motivi sia legato alla nostra cultura: il timore del giudizio dell'ultimo giorno, l'espiazione della pena in terra per poter essere accolti in paradiso.
Ogni essere umano ha in fondo un giudice mattutino costituito dallo specchio. In bagno mentre ci si lava, ci si trucca o ci si rade ognuno guarda un se stesso oggettivato e il giudice talvolta è un assolutore incallito, quando dall'altra parte dello specchio c'è un narcisista, un corrotto o un delinquente, in altro caso un tremendo e severo censore, quando c'è una persona a bassa autostima, insicura e depressa.
Ci processiamo quotidianamente in un'aula in cui siamo contemporaneamente l'accusato, il giudice, il difensore e la pubblica accusa e le nostre voci interiori, sedimentate per i ricordi dei nostri errori, fallimenti e azioni di cui non andiamo fieri, sono i testimoni chiamati dall'accusa.
Alla fin fine però almeno un difensore nella nostra mente c'è. Citato proprio in “The trial” di The Wall, è la mamma. Una madre che ha messo al mondo un innocente ma che si è poi via via corrotto.
FANTOZZI E L'INCOMPRENSIBILE CORAZZATA POTËMKIN
di ©Gianni Caminiti - 10 ottobre 2019
Il Ragioniere Ugo Fantozzi, nel nostro immaginario collettivo, è l'impiegato insoddisfatto, represso, con l'autostima sotto i piedi. Ma è anche un esempio figurativo di resistenza e resilienza che sembra mai arrendersi alle numerosissime batoste che la vita gli porta quotidianamante.
Nella sua storia lavorativa si alternano direttori megagalattici e capi improbabili che obbligano lui e gli altri dipendenti alle loro manie individuali, caricature grottesche di reali relazioni lavorative.
Entrato in azienda col ruolo di “spugnetta leccafrancobolli” fa pian piano tutti i gradini bassi della scala gerarchica senza mai affacciarsi lontanamente alla carriera vera e propria, quella che è riservata ad altri.
E' un esempio vivente di come si possa essere totalmente succubi di una persona ritenuta “superiore”.
Una vera e propria sudditanza psicologica è ritratta da Paolo Villaggio nei suoi fortunati romanzi, divenuti poi campioni d'incasso al cinema.
Assunto in quell'infimo ruolo solo grazie ad una “soffiata” sui gusti cinefili dal primo dei suoi capi, il prof. Riccardelli, Fantozzi si ritrova ad assistere a tutta una serie di proiezioni di Film della prima era cinematografica, per lui noiosissimi e, soprattutto, lontani anni luce dalla cultura popolare, di cui egli fa parte.
Ogni settimana i dipendenti, che al massimo di loro spontanea volontà assistevano a proiezioni come “Giovannona coscialunga” e “La polizia si incazza”, si trovano così a vedere Film d'autore a loro incomprensibili.
Il più famoso dei quali è “La corazzata Potëmkin” di Ėjzenštejn che, anche grazie a Fantozzi, è diventata famosissima al grande pubblico italiano per la celebre battuta:
“Per me la corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca”.
In quella scena, che tutti ricordiamo, sembrerebbe essere in atto una parvenza di ribellione. Questa però è attuata non per rivendicazioni di altro profilo ma soltanto per ritorsione per aver perso alla Tv la partita dell'Italia.
Il calcio, distrattore di massa già negli anni settanta, è da sempre la metafora dell'arena dove “moderni gladiatori” sconfiggono i “leoni” e vincono, in vece nostra, le proprie e nostre paure.
Tolto questo anestetico la ribellione esplode in tutta la sua violenza, sia pur comica, e finalmente i dipendenti capeggiati dal “liberto” Fantozzi mostrano finalmente i loro gusti, specchio del loro ceto economico e culturale.
E finalmente possono vedersi a rotazione filmetti di basso spessore culturale.
Prima di questa ribellione, come accade a volte oggi sulle pagine social dedicate al cinema, i dipendenti colleghi del Ragioniere, privi di qualsiasi cultura cinematografica, si sperticano, nel dibattito finale, in complimenti compiacenti a dir poco estasiati, utilizzando un gergo tecnico che non solo non appartiene loro ma che probabilmente non comprendono nemmeno. Frasi riprese tout court da libri di professori di cinema ad uso universitario.
I colleghi di Fantozzi in questa scena sicuramente incarnano l'italiano medio che spesso, anche tutt'ora, recita la parte del colto, cavalcando l'onda dei festival e l'opinione di critici cinematografici, pur non apprezzando minimamente quello che passa davanti ai suoi occhi e attraverso le orecchie ma non opponendosi all'opinione autorevole per timore di essere considerato ignorante.
Una certa provincialità di cui spesso i festival italiani sono accusati è, per esempio, quella di dare spazio al cinema dell'Asia molto lontano da gusti e modi di intendere il cinema dalle nostre parti. Cinema che risulta incomprensibile ai più ma, nonostante ciò, osannato anche da coloro che non hanno apprezzato.
Perchè accade?
Perchè abbiamo la necessità di appartenere o di sognare di appartenere a qualcosa di più grande, elevato, anche in termini economici.
Anche quando non si sa bene a che cosa appartenere.
Abbiamo la necessità di compiacere, soprattutto chi desideriamo avvicinare. E anche sfruttare. Per percorrere almeno qualche piano di quella scala sociale che sembra impossibile da salire. Pur restando comunque sempre ai piani bassi.
Del resto, oggi come allora, l'ascensore sociale italiano sembra essere “fermo al piano”.
FANTOZZI, IL LAVORO E
L' ATTESA DEL FUTURO
di ©Gianni Caminiti - 14 ottobre 2019
Fantozzi è un lavoratore insoddisfatto, l'uomo qualunque, che attende il venerdì sera sin dalla 8:01 del lunedì mattina. Non che nel Weekend abbia molto da gioire.
La sua vita lavorativa è passata in attesa del fine settimana che però non lo ricarica granchè, stretto nella morsa dalla sua altrettanto insoddisfacente vita familiare, tra una moglie, Pina, che “stima” ma non ama più, e una figlia, Mariangela, che persino gli adulti bullizzano, sfogando la loro aggressività repressa, chiamadola “Cita Hayworth”, a causa della sua tutt'altro che gentile figura estetica (simile a ciò che accade in questi giorni con Greta Thunberg, per esempio).
Fantozzi è la caricatura grottesca di quell'uomo-lavoratore che, completamente soggiogato, sogna comunque un riscatto di vita ma che non riesce ad ottenerlo perchè la bassa autostima lo porta ad attribuire esternamente a sé la possibilità di un reale cambiamento di vita.
E lo affida così alla fortuna, alla “schedina”.
O alla “conoscenza” di qualche potente come nel momento della sua assunzione.
E' la rappresentazione, pur nella esagerazione cinematografica messa in scena da Villaggio, del sistema clientelare italiano.
Ma il vantaggio della potente raccomandazione si esaurisce nell'entrata in una "famiglia" di cui non sarà mai davvero figlio.
Non può scalare le pareti lisce del potere.
Come in un sistema di caste ad ognuno è riservato un posto-mansione che non potrà mai aspirare davvero a cambiare. Le parvenze di carriera, ai gradi bassi della casta sociale di cui Fantozzi fa parte, sono al massimo simboleggiate dall'arredo e piante presenti nell'ufficio.
Non in un reale cambiamento di status.
Anche questo tema è attualissimo.
L'ascensore sociale, dicevo nel primo articolo su Fantozzi, sembra essere inesistente in Italia, se non per qualche eccezione che conferma la regola, anche ora come negli anni settanta ritratta dal ragioniere più famoso d'Italia.
La propria vita, autenticità, soddisfazione, autostima sono così sacrificate in onore al posto fisso, "centro di gravità permanente" nella vita e nell'immaginario collettivo di quegli anni, il cui emblema era il sogno del "posto in banca”.
Il tema del lavoro alieneante e insoddisfacente ma “sicuro”, è stato trattato ampiamente dal cinema sorattutto di qualche anno fa, a partire dal celeberrimo film di Chaplin “Tempi Moderni”. È stato ripreso recentemente, dopo la crisi economica del 2008, da una serie di Film, di cui il più noto sicuramente è il campione di incassi “Quo vado” di Checco Zalone.
Insoddisfatti ma incapaci di andarsene.
Sentirsi da una parte intrappolati in una vita che non ci appartiene ma contemporaneamente non riuscire (ma nemmeno in fondo volere) a sottrarci al “nostro destino” è sicuramente un sentimento comune nel nostro paese.
La domanda che tutti sembrano porsi, solo interiormente, dal lunedì al venerdì è:
“Come possiamo darci seconde possibilità, realizzare quei cambiamenti che ci donerebbero finalmente una vita pienamente soddisfacente?”.
Questo cambamento però lo si pensa attuabile solo domani.
Non oggi.
Anzi nel fine settimana.
E' una cosa in fondo molto frequente.
Ci sembra fattibile programmare cose come
“da lunedì mi metto a dieta” o
“da lunedì vado in palestra”,
per poi fallire miseramente al bar davanti all'ufficio il lunedì mattina, quando si cede alla tentazione del bombolone alla crema. Allo stesso modo le persone che attendono il Weekend per iniziare il riscatto non creano quasi mai le condizioni per attuarlo. Sono presi da altro. E finiscono per non cambiare mai.
Tutti noi ci barcameniamo in problemi di questo tipo.
Moltissimi restano schiacciati tra l'attesa di quello che potrebbe essere e quello che poi in realtà è.
E probabilmente sarà.
Nella patria delle partite IVA così ci ritrova a sognare, ora come allora, il posto fisso nella prima azienda “NormalWork” disponibile ad assumerci, non credendo di avere la possibilità e nemmeno la capacità di essere artefici della nostra sorte.
Così la vita diventa un doloroso tormento fatto di calda ma soffocante sicurezza.
E cosa meglio del cinema o della letteratura può dare voce a questi tormenti?
Pur tra risate sguaiate, quelli di Fantozzi non sono tuttavia film “leggeri”.
Scegliendo volutamente il linguaggio comico, forse per avvicinare più facilmente il sentire degli spettatori potenziali di “Giovannona coscialunga”, nel disegnare caricaturalmente il ragioniere Ugo Fantozzi, Villaggio ha ritratto un tratto culturale italiano diffusissimo.
I suoi film, soprattutto i primi, per la loro capacità di descrivere la realtà del nostro popolo, pur in modo esagerato e grottesco, vale la pena di studiarceli.