SmaniaPerspectives by Marco
Pensieri e Aforismi del viaggio dentro l'uomo
a cura di Marco Facoetti
𝐈𝐋 𝐋𝐈𝐍𝐆𝐔𝐀𝐆𝐆𝐈𝐎 𝐃𝐄𝐈 𝐆𝐄𝐒𝐓𝐈
𝑀𝑖 𝑒̀ 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑎𝑝𝑟𝑖𝑟𝑒 𝑙𝑎 ℎ𝑜𝑚𝑒 𝑝𝑎𝑔𝑒 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑠𝑖𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑡𝑖𝑧𝑖𝑒. 𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑟𝑖𝑚𝑎𝑠𝑡𝑜 𝑠𝑡𝑢𝑝𝑖𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑛𝑜𝑡𝑖𝑧𝑖𝑒 𝑠𝑒𝑔𝑛𝑎𝑙𝑎𝑡𝑒 𝑚𝑒𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑓𝑜𝑠𝑠𝑒 𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑡𝑖𝑧𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑏𝑜𝑡𝑡𝑖𝑔𝑙𝑖𝑎. 𝐶𝑒𝑟𝑡𝑜, 𝑛𝑜𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑏𝑜𝑡𝑡𝑖𝑔𝑙𝑖𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑢𝑛𝑞𝑢𝑒 𝑚𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑏𝑜𝑡𝑡𝑖𝑔𝑙𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑛𝑜𝑡𝑜 𝑚𝑎𝑟𝑐ℎ𝑖𝑜 𝑓𝑎𝑚𝑜𝑠𝑜 𝑎 𝑙𝑖𝑣𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑖𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑏𝑖𝑏𝑖𝑡𝑒 𝑔𝑎𝑠𝑎𝑡𝑒. 𝐶ℎ𝑒 𝑐𝑜𝑙𝑝𝑒 𝑎𝑣𝑒𝑣𝑎 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑝𝑜𝑣𝑒𝑟𝑎 𝑏𝑜𝑡𝑡𝑖𝑔𝑙𝑖𝑎? 𝑁𝑢𝑙𝑙𝑎, 𝑠𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑐ℎ𝑒 𝑒𝑟𝑎 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑎 𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑑𝑎𝑣𝑎𝑛𝑡𝑖 𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑡𝑒𝑙𝑒𝑐𝑎𝑚𝑒𝑟𝑒 𝑑𝑢𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑠𝑡𝑎𝑚𝑝𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑝𝑢𝑏𝑏𝑙𝑖𝑐𝑖𝑡𝑎̀. 𝐼𝑙 𝑐𝑎𝑚𝑝𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑡𝑢𝑟𝑛𝑜 (𝑅𝑜𝑛𝑎𝑙𝑑𝑜 𝑖𝑛 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑐𝑎𝑠𝑜) ℎ𝑎 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑡𝑜 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑡𝑜𝑔𝑙𝑖𝑒𝑟𝑙𝑎 𝑒𝑠𝑝𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑢𝑛 𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑜 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑙𝑖𝑐𝑒: 𝑙’𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎 𝑒̀ 𝑚𝑒𝑔𝑙𝑖𝑜. 𝐴𝑛𝑑𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑜𝑙𝑡𝑟𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑜𝑟𝑟𝑒𝑡𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑔𝑒𝑠𝑡𝑜 (𝑜𝑔𝑛𝑢𝑛𝑜 𝑒̀ 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑟𝑖𝑡𝑖𝑒𝑛𝑒 𝑜𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑢𝑛𝑜) 𝑒̀ 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑜𝑚𝑒𝑛𝑜 𝑐𝑢𝑟𝑖𝑜𝑠𝑜 𝑐ℎ𝑒 (𝑛𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑐𝑢𝑖 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑣𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑒 𝑟𝑖𝑔ℎ𝑒) 𝑠𝑖𝑎 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑡𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑒𝑡𝑡𝑖𝑚𝑎𝑛𝑎 𝑒 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑎 𝑠𝑒 𝑛𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑙𝑖.
𝐻𝑜 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑢𝑛𝑞𝑢𝑒 𝑎𝑑 𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑜𝑚𝑎𝑛𝑑𝑎 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑜 𝑓𝑟𝑒𝑞𝑢𝑒𝑛𝑡𝑒: 𝑣𝑎𝑙𝑔𝑜𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑙𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑒 𝑜 𝑖 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑖?
Perché, se ci pensiamo, di fronte ad un semplice gesto di pochi istanti, si sono già spesi fiume di parole per contestarlo, approvarlo o contestualizzarlo. Osservando la realtà che ci circonda oserei dare una risposta personale: valgono di più i fatti. La nostra è una società iperverbale, in cui (soprattutto virtualmente) si scrive e si commenta tanto, si esprimono pareri, si dà voce ai propri sentimenti. Scrivere qualcosa (un messaggio, una riga, un post) è una cosa ormai fin troppo comune. Ma tutte queste parole di cosa parlano? Spesso e volentieri parlano di gesti. Perché compiere un gesto o un’azione che possano essere significativi è diventata una cosa non scontata.
Eppure i gesti che in quanto tali non sono verbali e da soli non sanno esprimersi hanno bisogno di essere compresi. E se certi gesti molto semplici, legati alla sfera degli affetti, si capiscono senza bisogno di ulteriori commenti, altri invece non sono così eloquenti. Quello che, nelle nostre interazioni sociali, a volte manca è un linguaggio dei gesti: comprendere il significato più profondo dei gesti che uno compie. E giungere a questo livello è possibile osservando le persone che ci circondano. Avremmo così la possibilità di scoprire un mondo fatto di significati, storie che già ci circonda e nemmeno lo sappiamo. Magari continueremmo a non capire perché la bottiglia della Coca cola viene presa da Ronaldo e tolta dalla visione delle telecamere ma troveremmo un nuovo modo per capire chi sta attorno a noi. E impareremmo a esprimerci in maniera diversa, usando gesti che valgono più di mille parole.
O almeno così mi piace pensare.
Articolo di 2021 ©Marco Facoetti - 1 luglio 2021
Foto di 2021 ©Chiara Resenterra
𝐑𝐀𝐂𝐂𝐎𝐍𝐓𝐀𝐑𝐄
𝑁𝑒𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑔𝑟𝑎𝑚𝑚𝑖 𝑠𝑐𝑜𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑖𝑡𝑎𝑙𝑖𝑎𝑛𝑎 𝑢𝑛𝑜 𝑑𝑒𝑖 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑖 𝑎𝑟𝑔𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 (𝑖𝑛 𝑜𝑟𝑑𝑖𝑛𝑒 𝑐𝑟𝑜𝑛𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑐𝑜) 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑖 𝑝𝑜𝑒𝑚𝑖 𝑒𝑝𝑖𝑐𝑖, 𝑜𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑙𝑒 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑒 𝑜𝑝𝑒𝑟𝑒 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑟𝑖𝑒. 𝑈𝑛𝑜 𝑑𝑒𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑡𝑡𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑖𝑒𝑛𝑒 𝑠𝑝𝑖𝑒𝑔𝑎𝑡𝑜 𝑎𝑔𝑙𝑖 𝑠𝑡𝑢𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑚𝑒𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑒 𝑜𝑝𝑒𝑟𝑒 𝑒̀ 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑜 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑙𝑖𝑐𝑒: 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑖 𝑝𝑜𝑒𝑚𝑖 𝑐𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑔𝑖𝑢𝑛𝑡𝑖 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑖 𝑚𝑎 𝑖𝑛 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑡𝑎̀ 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑛𝑎𝑡𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑟𝑎𝑐𝑐𝑜𝑛𝑡𝑖 𝑜𝑟𝑎𝑙𝑖, 𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑡𝑎𝑙𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑡𝑖 𝑝𝑒𝑟 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑡𝑟𝑎𝑚𝑎𝑛𝑑𝑎𝑡𝑖 𝑜𝑟𝑎𝑙𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑜. 𝑂𝑣𝑣𝑖𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑒̀ 𝑢𝑛 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑒̀ 𝑎𝑣𝑣𝑒𝑛𝑢𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑒 𝑙𝑒 𝑐𝑖𝑣𝑖𝑙𝑡𝑎̀: 𝑖 𝑟𝑎𝑐𝑐𝑜𝑛𝑡𝑖 𝑒 𝑙𝑒 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑔𝑖𝑢𝑛𝑡𝑒 𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒𝑣𝑎𝑛𝑜 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑎 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑎 𝑙𝑖𝑣𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑜𝑟𝑎𝑙𝑒 𝑒, 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑖𝑛 𝑠𝑒𝑔𝑢𝑖𝑡𝑜, 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑒 𝑚𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑜. 𝑄𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑙𝑖𝑐𝑒 𝑎𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑚𝑖 ℎ𝑎 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑟𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑢𝑛 𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑜𝑔𝑔𝑖 𝑠𝑡𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑒𝑛𝑑𝑜: 𝑙𝑎 𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑟𝑎𝑐𝑐𝑜𝑛𝑡𝑜. 𝐴 𝑚𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑙𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑒𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎 𝑐𝑢𝑙𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑒̀ 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑢𝑙𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑑𝑜𝑣𝑒, 𝑛𝑒𝑙 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑚𝑎𝑙𝑒, 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑢𝑐𝑐𝑒𝑑𝑒 𝑣𝑖𝑒𝑛𝑒 𝑟𝑖𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑒𝑝𝑙𝑖𝑐𝑖 𝑚𝑜𝑑𝑖 (𝑠𝑖𝑡𝑖 𝑤𝑒𝑏, 𝑙𝑖𝑏𝑟𝑖 𝑚𝑒𝑠𝑠𝑎𝑔𝑔𝑖 𝑒𝑡𝑐.). 𝑆𝑖𝑐𝑢𝑟𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑚𝑜𝑑𝑜 𝑑𝑖 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑎 𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑡𝑟𝑎𝑐𝑐𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑢𝑐𝑐𝑒𝑑𝑒 𝑚𝑎 𝑐𝑟𝑒𝑑𝑜 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑖 𝑐𝑜𝑛 𝑠𝑒́ 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐ℎ𝑒 𝑟𝑖𝑠𝑐ℎ𝑖𝑜 𝑠𝑜𝑡𝑡𝑜𝑣𝑎𝑙𝑢𝑡𝑎𝑡𝑜. 𝑃𝑟𝑜𝑣𝑜 𝑎 𝑠𝑝𝑖𝑒𝑔𝑎𝑟𝑚𝑖 𝑚𝑒𝑔𝑙𝑖𝑜.
Raccontare è una delle dimensioni fondamentali del vissuto umano. Pensiamo alla nostra routine: ogni giorno ripetiamo una serie di azioni. Eppure ogni giornata è diversa dalle altre: non ne esistono mai due uguali l’una all’altra. Per questo sorge spontanea la voglia di condividere con le persone a noi care quell’episodio particolare che ci è successo o come ci siamo sentiti quando abbiamo incontrato quella persona. Nessuno ci obbliga a farlo ovviamente ma, chi più e chi meno, a tutti viene naturale confidarsi e raccontarsi.
Ho notato però che quando raccontiamo, non raccontiamo tutto e non lo raccontiamo a tutti. Quando siamo nella predisposizione migliore per confidarci e raccontare quello che ci è successo, infatti, lo facciamo solo con le persone che riteniamo importanti e degne di fiducia. Una cosa bella che ci è successa o una fatica, la raccontiamo solo a chi ci conosce bene e di cui ci possiamo fidare; non sarebbe così naturale, al contrario raccontarsi ad uno sconosciuto o ad una persona con cui non siamo in confidenza. Un altro elemento importante del racconto è l’altro: non raccontiamo mai una storia se siamo da soli ma ci deve essere qualcuno che ci ascolta. E’ la persona che abbiamo di fronte, infatti, che accende il nostro interesse nel comunicare qualcosa di noi. Anche quando scriviamo solitamente scriviamo perché qualcuno possa leggerlo: o dei possibili lettori o magari anche solo noi stessi qualche tempo dopo (pensiamo a chi di noi tiene un diario personale). Ciò ci ricorda che raccontare ha in sé la forza di creare una relazione ed un contatto tra noi e chi ci sta ascoltando. Spesso sentire una persona che parla e racconta è molto più coinvolgente di una pagina da leggere. I bambini ce lo insegnano: anche se conoscono già una storia, amano sentirsela raccontare più e più volte. Inoltre raccontare permette all’ascoltatore di rivivere quello noi abbiamo vissuto in prima persona e di poterci aiutare a conservare la memoria di quello che è successo. Quando una storia non viene raccontata (e quindi non viene condivisa) la sua memoria si perde e presto rischi di essere dimenticata.
Credo che ognuno potrebbe aggiungere qualcosa a questo articolo: in fondo ognuno di noi ha una storia da raccontare e potrebbe a sua volta raccontare cosa vuol dire per lui questo piccolo e semplice gesto. Credo però che fare memoria di questi piccoli ma importanti dettagli ci possa ricordare l’importanza della relazione. Raccontare ha senso solo se qualcuno ascolta o legge quello che stiamo raccontando; altrimenti sarebbe solo un parlare a vuoto. Per questo chi ci sta accanto ci dona una grande possibilità, la possibilità di essere ascoltati che trasforma una semplice storia in un racconto.
Articolo di 2021 ©Marco Facoetti - 3 giugno 2021
Foto di 2021 ©Chiara Resenterra
𝗜𝗡𝗖𝗟𝗨𝗦𝗜𝗢𝗡𝗘
𝘍𝘳𝘦𝘲𝘶𝘦𝘯𝘵𝘢𝘯𝘥𝘰 𝘥𝘢 𝘲𝘶𝘢𝘭𝘤𝘩𝘦 𝘵𝘦𝘮𝘱𝘰 𝘭’𝘢𝘮𝘣𝘪𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘦𝘥𝘶𝘤𝘢𝘵𝘪𝘷𝘰 (𝘪𝘯 𝘥𝘪𝘷𝘦𝘳𝘴𝘪 𝘳𝘶𝘰𝘭𝘪 𝘦 𝘤𝘰𝘯𝘵𝘦𝘴𝘵𝘪) 𝘩𝘰 𝘢𝘷𝘶𝘵𝘰 𝘮𝘰𝘥𝘰 𝘥𝘪 𝘳𝘪𝘧𝘭𝘦𝘵𝘵𝘦𝘳𝘦 𝘱𝘦𝘳𝘴𝘰𝘯𝘢𝘭𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘴𝘶𝘭 𝘵𝘦𝘮𝘢 𝘥𝘦𝘭𝘭’𝘪𝘯𝘤𝘭𝘶𝘴𝘪𝘰𝘯𝘦. 𝘊𝘰𝘮𝘦 𝘢𝘭𝘵𝘳𝘦 𝘷𝘰𝘭𝘵𝘦 𝘮𝘪 𝘦̀ 𝘤𝘢𝘱𝘪𝘵𝘢𝘵𝘰 𝘱𝘦𝘯𝘴𝘰 𝘮𝘰𝘭𝘵𝘰 𝘢𝘭𝘭’𝘪𝘥𝘦𝘢 𝘤𝘩𝘦 𝘶𝘯𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘰𝘭𝘢 𝘱𝘶𝘰̀ 𝘴𝘶𝘨𝘨𝘦𝘳𝘪𝘳𝘦. 𝘐𝘯 𝘵𝘦𝘮𝘢 𝘥𝘪 𝘪𝘯𝘤𝘭𝘶𝘴𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘷𝘪𝘦𝘯𝘦 𝘴𝘶𝘣𝘪𝘵𝘰 𝘥𝘢 𝘱𝘦𝘯𝘴𝘢𝘳𝘦 𝘤𝘩𝘦 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘰𝘭𝘢 𝘴𝘪𝘨𝘯𝘪𝘧𝘪𝘤𝘩𝘪 𝘤𝘩𝘦 𝘶𝘯 𝘨𝘳𝘶𝘱𝘱𝘰 𝘥𝘦𝘤𝘪𝘥𝘦 𝘥𝘪 𝘢𝘤𝘤𝘰𝘨𝘭𝘪𝘦𝘳𝘦 𝘤𝘰𝘮𝘦 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘨𝘳𝘢𝘯𝘵𝘦 𝘶𝘯 𝘯𝘶𝘰𝘷𝘰 𝘮𝘦𝘮𝘣𝘳𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘱𝘳𝘪𝘮𝘢 𝘯𝘰𝘯 𝘯𝘦 𝘧𝘢𝘤𝘦𝘷𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦. 𝘖 𝘢𝘭𝘮𝘦𝘯𝘰 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘦̀ 𝘲𝘶𝘦𝘭𝘭𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘴𝘶𝘨𝘨𝘦𝘳𝘪𝘴𝘤𝘦 𝘢 𝘮𝘦 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘰𝘭𝘢 𝘯𝘦𝘭𝘭’𝘢𝘮𝘣𝘪𝘵𝘰 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘳𝘦𝘭𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘪 𝘶𝘮𝘢𝘯𝘦. 𝘚𝘪 𝘱𝘰𝘵𝘳𝘢̀ 𝘱𝘰𝘪 𝘢𝘨𝘨𝘪𝘶𝘯𝘨𝘦𝘳𝘦 𝘤𝘩𝘦 𝘴𝘱𝘦𝘴𝘴𝘰 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘵𝘦𝘳𝘮𝘪𝘯𝘦 𝘷𝘪𝘦𝘯𝘦 𝘶𝘴𝘢𝘵𝘰 𝘰𝘨𝘨𝘪 𝘱𝘦𝘳 𝘱𝘳𝘰𝘮𝘶𝘰𝘷𝘦𝘳𝘦 𝘭𝘦 𝘢𝘵𝘵𝘪𝘷𝘪𝘵𝘢̀ 𝘤𝘩𝘦 𝘮𝘪𝘳𝘢𝘯𝘰 𝘢 𝘤𝘰𝘪𝘯𝘷𝘰𝘭𝘨𝘦𝘳𝘦 𝘱𝘦𝘳𝘴𝘰𝘯𝘦 𝘤𝘰𝘯 𝘧𝘳𝘢𝘨𝘪𝘭𝘪𝘵𝘢̀ 𝘱𝘪𝘶̀ 𝘰 𝘮𝘦𝘯𝘰 𝘱𝘳𝘰𝘧𝘰𝘯𝘥𝘦 𝘦 𝘷𝘢𝘭𝘰𝘳𝘪𝘻𝘻𝘢𝘳𝘭𝘦.
Fin qui non sembra esserci nulla di male. Ma qualcosa in questa definizione non mi torna. Attuare un’operazione di inclusione vuol dire prevedere un gruppo di persone più o meno ampio pre-esistente che coinvolge e fa diventare parte di sé un’altra persona. Non ho grandi competenze di sociologia ma se penso ad un gruppo, penso ad un insieme di persone che hanno qualcosa in comune che le fa stare insieme. Una squadra di calcio condivide uno sport, una classe condivide un luogo e un tempo insieme. La lista potrebbe continuare a lungo ma se la passione o l’occasione condivisa può essere uno stimolo per ritrovarsi spesso diventa anche un confine che separa dall’esterno. Se non so dipingere non potrò fare parte di un circolo di pittori, per esempio: nei loro confronti mi sentirò sempre estraneo. In sintesi parlare di inclusione nei confronti di persone con fragilità mi sembra far intendere che c’è un gruppo precostituito e dobbiamo cercare di coinvolgere tutti. Purtroppo se ne parliamo vuol dire che la nostra società per diverso tempo ha pensato in questa maniera. Ma non è vietato sperare.
Cosa spero? Che questo confine venga una volta per tutte abolito. Ciò che infatti avviene è questo: chi si sente diverso è accolto da chi ha già imparato ad accettare la sua diversità. Ma si sente anche messo ai margini da chi non è in grado di farlo. Vista così una soluzione sembra non esserci perché si cadrebbe in un circolo vizioso.
Ma una soluzione forse c’è ed è in questa che ho speranza. Se in un gruppo tutti hanno qualcosa in comune che li unisce ma che esclude chi questa cosa non la condivide, allora basta trovare un elemento in grado di unire tutti, senza che nessuno se ne senta escluso: l’umanità. Tutti siamo uomini e donne e come tali abbiamo tutti qualcosa che ci unisce, anche se spesso non ce lo ricordiamo. Basterebbe ricordarsi che facciamo tutti parte di un solo grande gruppo composto da tutti gli esseri umani; nessuno ne sarebbe così escluso e sarebbe facile aiutarci a vicenda. E se nessuno ne è escluso, vuol dire che non sarebbe rimasto nessuno da includere.
Utopia? Forse, ma ormai lo sapete come la penso: sperare non costa nulla.
.
Articolo di 2021 ©Marco Facoetti - 6 maggio 2021
Foto di 2021 ©Chiara Resenterra
𝐒𝐀𝐋𝐈𝐒𝐂𝐄𝐍𝐃𝐈
𝐿𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑒̀ 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑎 𝑠𝑐𝑎𝑙𝑒. 𝑆𝑖 𝑠𝑐𝑒𝑛𝑑𝑒 𝑒 𝑠𝑖 𝑠𝑎𝑙𝑒.
La quotidianità che in questo periodo storico stiamo vivendo è scandita da parola, video, tecnologia e molte emozioni contrastanti. La stanchezza di stare reclusi in casa fa spesso il paio con sensazioni diverse di volta in volta (speranza, sconforto, serenità, paura e molte altre a seconda della persona che le vive). Oltre a questi dati soggettivi ci sono anche dei dati oggettivi che restituiscono un’idea di come stiano andando le cose. Frasi come “sale la curva dei contagi” “diminuisce il rapporto” etc. Sono espressioni con cui abbiamo imparato a convivere, insieme a tanti altre espressioni. Non sono sicuramente solo questi gli elementi che ci permettono di discernere la qualità del tempo che stiamo vivendo. Ma espressioni di questo tipo di sicuro non ci lasciano indifferenti.
La saggezza popolare conferma questa cosa: chi non ha mai sentito il detto che “la vita è fatta a scale: c’è chi scende e c’è chi sale”? A me sì. E ho provato anche a pensare alla mia vita in questi termini. Ognuno ha una sua storia particolare e unica: incontri, esperienze, situazioni, scelte. Non sempre però è facile coglierne il senso, soprattutto quando li stiamo vivendo. Ci sono momenti in cui ci guardiamo allo specchio e tiriamo le somme; diventa allora una tendenza comune provare a cercare delle tendenze in quello che abbiamo vissuto e identificare i periodi della nostra vita con queste tendenze. A posteriori riconosciamo che magari “in quel periodo mi sono un po' lasciato andare e ho sbagliato un po’ di cose” oppure diciamo che “grazie a quest’esperienza sono cresciuto”. Ecco perché la vita è fatta a scale: in alcuni periodi salivo e in altri scendevo!
Potrei smettere di scrivere ora e lasciare che questa sia l’ultima parola in merito a questo argomento. Ma sento che non sarebbe del tutto onesto: secondo questa logica infatti rischieremmo di mettere da parte alcuni incontri, esperienze, situazioni, scelte che abbiamo vissuto identificandoli come negativi (perché allora stavamo “scendendo”) identificandoci solo con quelli positivi. Dimenticheremmo che se oggi siamo chi siamo, in qualsiasi condizione di vita ci troviamo, è grazie a tutto quello che abbiamo vissuto, sia i momenti più belli che quelli meno belli. Un po’ come in un cammino in montagna: arriviamo alla fine e ci guardiamo indietro: la vetta non ci sarebbe stata senza la fatica e per tornare a casa abbiamo dovuto fare anche la fatica di scendere a valle. Il cammino che abbiamo percorso era fatto sia di salita che di discesa e senza una delle due il nostro percorso non sarebbe stato completo. Concluderei allora apportando una correzione a questo famoso modo di dire: la vita è fatta a scale, si scende e si sale. Spero che la saggezza popolare me lo perdonerà …
Articolo di 2021 ©Marco Facoetti - 1 aprile 2021
Foto © Un fotogramma del film "Ombra e il Poeta"
𝐂𝐔𝐑𝐀
𝐴𝑙𝑙𝑒𝑛𝑎𝑟𝑠𝑖 𝑎 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑛𝑜𝑠𝑐𝑒𝑟𝑒 𝑖 𝑑𝑒𝑛𝑠𝑖 “𝑔𝑒𝑠𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑐𝑢𝑟𝑎”.
Rientri a casa dopo una lunga giornata e trovi la tavola apparecchiata e un buon profumo di cibo appena cotto in casa. Stai per uscire in mezzo ad una forte pioggia e una mano ti porge l’ombrello. Quel libro che da tempo volevi comprare ma non ha ancora avuto occasione di farlo, te lo ritrovi impacchettato con biglietto scritto a mano. Questa lista potrebbe proseguire molto a lungo e non rappresenta scene casuali della nostra vita quotidiana; questi gesti sono dei gesti semplici ma importanti perché sono gesti di cura. Questi gesti sono semplici, delicati e non hanno bisogno di grandi presentazioni. Sono i gesti che una mamma fa per i suoi figli, quelli che chiunque fa nei confronti delle persone che gli stanno a cuore. Questi gesti mi affascinano: perché sono potenti e discreti allo stesso tempo. Mi piace definirli dei gesti “densi”: densi perché sono il frutto e il simbolo della relazione che li ha generati. Infatti non lo faremmo mai nei confronti di una persona che non ci interessa. Li compiamo solo nel momento in cui quella persona ci sta a cuore.
I gesti di cura hanno anche un’altra caratteristica che li rende unici: sono resilienti. Se questi gesti sono frutto di relazioni sappiamo bene che le relazioni nel tempo cambiano, soprattutto quelle che durano più a lungo. Pensiamo per esempio ai legami di parentela più stretti, quelli tra genitore e figlio o tra fratelli, per esempio. Sono legami che si sviluppano nell’arco di tutta la vita. E in un tempo così lungo, si sa, di errori se ne compiono e non sempre tutto è rose e fiori. Eppure i gesti di cura restano. Nonostante tutto. Cambiano, si trasformano, assumono nuovi volti, ma non smettono mai di essere presenti nella nostra vita. Non solo: nel tempo si arricchiscono, in quantità e qualità.
Inoltre hanno anche un’altra caratteristica. Sono gesti eloquenti. Sono gesti che parlano da soli, senza bisogno di molte parole perché da soli sanno esprimere tutto quello che ci portiamo dentro. Grazie a questa loro forza sono in grado di dare un volto nuovo alla nostra giornata, di farci riscoprire cose che avevamo dimenticato o anche di aiutarci nei momenti di difficoltà.
Corrono però un grande rischio: quello di passare inosservati. Non per colpa di chi li compie, ma per chi li riceve. Sono gesti semplici e discreti, come già detto sopra, e proprio per la loro semplicità possono passare come gesti scontati e dovuti. Quando questo succede in maniera continuativa, il rapporto che li ha generati rischia di correre una piccola battuta d’arresto. La cosa importante è provare ad allenare il nostro sguardo e scorgere questi piccoli gesti là dove sono presenti. Perché uno sguardo accorto è in grado di dimostrare gratitudine per chi ci ha rivolto questi gesti e ricambiare la cura ricevuta in altrettanti gesti di cura; diversi magari nei modi ma generati dagli stessi sentimenti.
Articolo di 2021 ©Marco Facoetti - 4 marzo 2021
Fotografia di 2021 ©Chiara Resenterra - 4 marzo 2021
𝐌𝐄𝐙𝐙𝐎 𝐏𝐈𝐄𝐍𝐎
𝐎 𝐌𝐄𝐙𝐙𝐎 𝐕𝐔𝐎𝐓𝐎?
𝐿𝑎 𝑓𝑖𝑑𝑢𝑐𝑖𝑎 𝑛𝑒𝑙 "𝑚𝑎𝑟𝑔𝑖𝑛𝑒 𝑎𝑟𝑔𝑒𝑛𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑛𝑢𝑣𝑜𝑙𝑒.
𝐼𝑙 𝑙𝑎𝑡𝑜 𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑖𝑣𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑒.
Mezzo pieno o mezzo vuoto? Ecco il classico dilemma del bicchiere, nobilitato da un luogo comune che ci spinge a vedere sempre il lato positivo quando le cose non vanno al meglio. O anche a dirci in maniera cinica che le cose anche se vanno bene, insomma, potrebbero essere meglio. Al di là di questi dubbi di lana caprina, mi incuriosisce come un modo di dire tipo questo ci aiuti a vedere anche quello che non appare a prima vista. Mi sono però allora chiesto: c’è forse un modo per provare a vedere l’altro “lato” del bicchiere, anche quando il proverbio magari non ci viene in mente all’istante? Un modo unico, valido per tutti credo che non ci sia. Possiamo però cogliere il segreto profondo che sta al cuore di questa espressione colloquiale.
Un modo di dire dal significato simile, usato nei paesi anglofoni, dice “𝑒𝑣𝑒𝑟𝑦 𝑐𝑙𝑜𝑢𝑑 ℎ𝑎𝑠 𝑎 𝑠𝑖𝑙𝑣𝑒𝑟 𝑙𝑖𝑛𝑖𝑛𝑔” (già lo avevo citato tempo fa sempre nella mia rubrica); la traduzione letterale dice che “ogni nuvola ha un orlo argentato”, ma viene comunemente usata per dire che nelle cose bisogna sempre vedere il lato positivo. Se ci pensiamo bene però quando guardiamo una nuvola, vedere questo orlo argentato non è sempre così facile. Come fare allora? Semplice basta spostarsi un poco e cambiare prospettiva. E anche con il nostro bicchiere mezzo pieno/vuoto, come facciamo a vedere l’altro lato della medaglia? Anche in quel caso basta cambiare prospettiva.
Semplice a dirsi. Ma in pratica? In pratica è una questione di fiducia per potersi mettere nei panni dell’altro. Perché se pensiamo alla nostra nuvola, una persona dalla sua posizione può non vedere questo lato argenteo; ma un’altra, che la guarda da un’altra posizione e quindi da una prospettiva diversa sì. Bisogna allora fare una scelta: fidarsi o meno. Fidarsi in questo caso vuol dire vedere le cose con gli occhi dell’altro e accettare che la vita, le situazioni, le relazioni possano avere anche sfumature che noi, dal nostro punto di vista, non siamo in grado di cogliere; e accettare questa prospettiva nuova può cambiare davvero le cose.
Lo penso soprattutto nelle relazioni. A volte mi capita, nelle relazioni che vivo, di sperimentare situazioni di stallo o di fatica. In quei casi capita di fermarsi sul proprio punto di vista. Il segreto sta forse allora nel guardare le cose cambiando prospettiva. Così magari può apparire che quello che sembrava un grande problema, se lo prendi dal verso giusto, può essere più semplice di quello che sembrava. Così anche nelle relazioni più intime, come quelle tra una madre e i figli, per esempio che cambiano con il passare degli anni, per ritrovare quello che conta basta cambiare prospettiva per ritrovare quello che conta.
Articolo e fotografia di 2021 ©Marco Facoetti - 4 febbraio 2021
𝐏𝐀𝐒𝐒𝐈
Tutto concorre a farci diventare quello che siamo. Anche un anno difficile.
Tra il 31 dicembre 2020 e il 1 Gennaio 2021 ho avuto l’occasione di fare diverse cose, stare con le persone a me care e, in parte minore, spendere tempo curiosando sui social. Ho così potuto notare (come molti di voi immagino) che il leitmotiv di molti post in quei giorni era: menomale che il 2020 finisce. Questo concetto era poi esposto con immagini, parole e video di diverso tipo che esprimevano quanto grande fosse la volontà di voltare pagina. Non ho trovato un’immagine simbolo di tutto questo ma se dovessi racchiudere tutto questo in un simbolo sceglierei una x. Non una qualunque ma una di quelle belle x rosse che gli insegnanti mettono sugli errori delle verifiche. Come a dire: non lo possiamo cancellare ma l’intenzione è quella. Lo suggeriva anche il Time con l’ultima copertina dell’anno fatta semplicemente dalla scritta 2020 e una bella croce sopra. Francamente alzo la mano e mi ci metto anche io tra quelli che il 2020 lo volevano cancellare.
Eppure….
Eppure pensando bene credo che ci sia di più. Credo infatti che il 2020 sia stato un po' come un passo. Quando si cammina non si fa altro che mettere un passo dietro l’altro. Un po' come dice Niccolò Fabi, camminare è “una somma di piccole cose, una somma di passi che arrivano a 100”. Anche chi fa cammini di chilometri e chilometri per tanti giorni non fa altro che mettere un passo dietro l’altro. In questo lungo processo ogni passo è fondamentale, piccolo ma fondamentale. Perché per compiere il passo successivo devi compiere quello precedente. Non sempre poi i passi che facciamo sono fortunati: ogni tanto si inciampa, magari si cade anche o si scivola. Per arrivare alla meta però anche questi passi servono.
Pensando al 2020 mi piacerebbe allora pensarlo come un piccolo passo. Sicuramente come uno di quelli in cui si fa più fatica, quando magari hai le gambe doloranti dal tanto camminare o uno di quelli che fai quando prendi una buca che non avevi visto e rischi di cadere. Un passo difficile ma un passo di una serie. Mi piace pensarlo così perché (puramente a livello di vicenda personale e ognuno può pensare alla propria) le sfide che abbiamo vissuto sono sicuramente state per ognuno di noi un momento cruciale e significativo ma di una storia più grande. Basta pensare alle nostre storie: abbiamo sicuramente avuto nel nostro passato dei periodi difficili ma se siamo chi siamo oggi possiamo dire che è anche grazie a quei momenti. O pensiamo ai rapporti che viviamo con le persone a noi care, quanto cambiano nel corso del tempo; e in questa evoluzione i momenti difficili sono quelli che ci aiutano a trovare in chi abbiamo accanto quello di cui davvero abbiamo bisogno.
E anche se non possiamo sapere come saremo un domani, possiamo però pensare che anche quello che abbiamo vissuto ultimamente ci avrà aiutato a diventare le persone che saremo.
Articolo di ©Marco Facoetti - 7 gennaio 2021
foto: free image from Pixabay
𝐀𝐓𝐓𝐄𝐒𝐀
𝑃𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒̀ 𝑒̀ 𝑐𝑜𝑠𝑖̀ 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑙𝑒 𝑎𝑡𝑡𝑒𝑛𝑑𝑒𝑟𝑒? 𝑈𝑛𝑎 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑢𝑙 𝑠𝑖𝑔𝑛𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙'𝑎𝑡𝑡𝑒𝑠𝑎 𝑖𝑛 𝑎𝑑𝑢𝑙𝑡𝑖 𝑒 𝑏𝑎𝑚𝑏𝑖𝑛𝑖.
Lavorare con i bambini ti mette sempre in discussione, perché sanno sempre sorprenderti ti chiedi come facciano. Ma allo stesso tempo ti insegna che spesso hai in te delle risorse e delle capacità che a volte non credevi nemmeno di avere. Lo sto scoprendo anche io, partecipando all’esperienza educativa di molti bambini tra i 6 e i 10 anni. Insieme a questo scopro anche le cose che gli riescono meglio come quelle che in cui faticano di più.
Una delle cose su cui vedo in loro maggiore fatica (per questioni legate alla loro età) è l’attesa. Penso che tutti abbiamo sentito prima o dopo un bambino fare ad un adulto la famigerata domanda “quanto manca?” e vedere l’adulto barcamenarsi nel dare una risposta che soddisfacesse il bambino ma allo stesso tempo non lo scoraggiasse nel continuare a tenere duro nel portare pazienza. E anche come adulti spesso vivere l’attesa è una delle cose più difficili. Mi sono chiesto allora: perché? Perché è così difficile?
Attendere qualcosa vuol dire che quello che aspettiamo è importante per noi. Non si aspetta mai nulla di insignificante, in quel caso per noi il tempo passa e basta. In questo periodo molti vivono l’attesa del Natale, per tanti motivi ma credo che ognuno di noi abbia sperimentato nella sua vita dei momenti di attesa forti: a volte di giorni, in alcuni casi anche di anni. Solo che tra noi e questo evento importante c’è sempre di mezzo il tempo che inesorabile sta lì e non lo possiamo togliere di mezzo in nessun modo.
In quel momento la fantasia umana ha modo di scatenarsi come non mai: c’è chi fa conti alla rovescia, chi inventa calendari apposta, chi si inventa personali modi per ingannare il tempo. Chi più ne ha più ne metta. Ricordo un amico che, da ragazzo, quando doveva stare diversi giorni in attesa prima di vedere la sua fidanzata, mangiava ogni giorno dopo pranzo un cioccolatino. Sicuramente sarebbe stato un testimonial perfetto per chi vende cioccolato. Pensiamo poi a quanto è difficile attendere se non sai quanto dovrai attendere. Penso all’esperienza forte delle mogli che vedevano i propri mariti partire per la guerra. Passavano anni senza sapere se e quando sarebbero tornati. Penso anche a quando attendiamo eventi dalla data incerta quanto siamo messi alla prova.
Ma allora perché attendere è così difficile? Non lo so per certo ma secondo me è una questione di fiducia. Sappiamo infatti che una cosa succederà ma fino a quel momento non lo sapremo per certo, quindi dobbiamo fidarci che davvero avverrà come crediamo. E fidarsi un po' ci mette alla prova perché non avremo mai la certezza matematica: altrimenti non si chiamerebbe fiducia. Attendere dunque per me vuol dire fidarsi e non sempre è facile. Nemmeno per i bambini che anche se si fidano molto più di noi grandi, vorrebbero però vedere esauditi i loro bisogni in poco tempo.
Per te invece cosa vuol dire attendere?.
Articolo di ©Marco Facoetti - 3 dicembre 2020
foto di © Gianni Caminiti
𝐄𝐌𝐏𝐀𝐓𝐈𝐀
𝐿'𝑒𝑚𝑝𝑎𝑡𝑖𝑎 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑜 𝑠𝑖𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑐ℎ𝑖𝑎𝑚𝑎𝑡𝑎 𝑒𝑑 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑓𝑖𝑑𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑜𝑔𝑛𝑢𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑖.
𝐸 𝑝𝑢𝑜̀ 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐ℎ𝑖𝑎𝑣𝑖 𝑎𝑢𝑡𝑒𝑛𝑡𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑜𝑙𝑡𝑖𝑣𝑎𝑟𝑒 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑒𝑑 𝑎𝑢𝑡𝑒𝑛𝑡𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑎𝑛𝑧𝑎.
Nel nostro modo di vivere oggi la distanza è qualcosa che conta. Da una parte il periodo eccezionale che stiamo vivendo da ormai molti mesi ci ha fatto sperimentare la distanza in tante dinamiche della nostra vita. La scuola era sempre stata una questione di presenza, oggi abbiamo toccato con mano la didattica a distanza. L’affetto per i nostri cari si è sempre espresso in gesti semplici e concreti (una stretta di mano, un abbraccio, un po' di tempo speso insieme) ma nei momenti più difficili ha fatto i conti con una forzata distanza. Tante esperienze aggregative che prima facevano della presenza il loro punto di forza, oggi hanno dovuto reinventarsi nella lontananza, usando ovviamente i mezzi tecnologici che abbiamo a disposizione. In tutti questi mesi abbiamo però avuto modo anche di riscoprire che la lontananza fisica non vuol dire per forza lontananza relazionale. Usando alcuni slogan utilizzati recentemente ci siamo riscoperti “distanti ma uniti”. Ci sono però anche altri modi per stare vicino alle persone. Uno di questi è sicuramente l’empatia e penso possa essere un valore da recuperare, sia per questo periodo che per tante altre esperienze di vita in cui possiamo venire a trovarci. Non ho competenze particolari in psicologia né pretendo di averle; vorrei però provare a spendere qualche parola in merito per provare ad approfondire il tema e lanciare alcune provocazioni.
Innanzitutto: cosa significa empatia? Sbirciando uno dei tanti dizionari online emerge questa definizione: “la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d'animo o nella situazione di un'altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva”. Già da questa definizione mi pongo subito una domanda: siamo ancora capaci di fare una cosa del genere? O se non altro ci proviamo? Ormai ci siamo assuefatti ad una cultura del giudizio facile in cui chi si espone per una scelta o per una situazione viene giudicato in numerosi modi nelle piazze virtuali e non. Ci siamo abituati a questa condizione e non ci facciamo più tanto caso… anche se pensandoci bene questa non è la normalità. Mi chiedo allora io per primo: forse allora prima di giudicare dovremmo provare a metterci nei panni dell’altro per comprenderlo a fondo. Ma questa operazione è complessa e poco alla moda: diventa allora facile rinunciare prima ancora di cominciare. Eppure anche solo leggendo questa definizione mi rendo conto che questa capacità è fondamentale per capire chi mi sta di fronte.
Andando poi a fondo nella parola empatia, scopro anche che deriva dal greco pathos. Nella visione greca indicava i sentimenti nella parte più profonda e viscerale. Quindi non le emozioni superficiali ma le pulsioni positive e negative che si smuovono dentro di noi. In altri termini la parola empatia se da una parte ci lancia una sfida a “indossare le scarpe dell’altro” dall’altra ci ricorda che per certi versi non potremo mai comprendere davvero chi ci sta di fronte perché c’è sempre in ognuno di noi una parte profonda, viscerale ed intima, che nessuno riesce mai davvero a comunicare ad altri ma resta il suo mistero. Per questo motivo mi piace pensare che siamo anche chiamati ad accogliere l’altro senza la pretesa di capire tutto ma solamente aprendo le braccia facendolo sentire accolto.
L’empatia in questa duplice dimensione dell’immedesimazione e dell’accoglienza penso sia una chiamata ed una sfida per ognuno di noi. Una chiamata perché ci ricorda che la distanza fisica non è un muro insormontabile nelle relazioni: siamo sempre chiamati a capire chi ci sta di fronte. Ma dall’altra parte è anche una sfida, perché non è facile accettare che non possiamo capire tutto ma siamo comunque chiamati ad accogliere. Quindi sì l’empatia può essere davvero una delle chiavi autentiche per coltivare relazioni vere ed autentiche anche nella distanza.
Articolo di ©Marco Facoetti - 5 novembre 2020
la foto è (per genitle concessione) di TIm Marhall
𝐈𝐌𝐏𝐀𝐑𝐀𝐑𝐄
𝐺𝑙𝑖 𝑖𝑛𝑔𝑟𝑒𝑑𝑖𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑚𝑝𝑎𝑟𝑎𝑟𝑒?
𝑆𝑒𝑛𝑠𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑡𝑎̀, 𝑢𝑛 𝑏𝑢𝑜𝑛 𝑚𝑎𝑒𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑒 𝑢𝑛 𝑝𝑖𝑧𝑧𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝑒𝑟𝑟𝑜𝑟𝑒.
93, 3, 110.
93 anni
Laurea numero 3
110 e lode.
Sono questi i numeri che si sono allineati per la prima volta con Benito Rimini un pensionato di Biella che ha raggiunto questo risultato pochi giorni fa laureandosi in Filosofia.
Non è la prima volta che capita di sentire la notizia di qualcuno che nonostante possa ritenersi sazio di giorni ha deciso di non ritenersi sazio di conoscenza. In questo modo ha reso una volta di più attuale il celebro motto di Socrate “so di non sapere”. Una piccola grande storia come questa riporta alla luce che tra le tante cose che accomuna uomini e donne di ogni età è proprio il bisogno di scoprire ciò che non si sa, di imparare cose nuove e apprendere abilità che prima sembravano sconosciute.
Per imparare insomma non c’è età: sia che tu sia un bambino ai primi mesi in assoluto di scuola, sia che tu sia un anziano che dedica il suo tempo ad approfondire le sue conoscenze.
Anche senza età però non è da tutti imparare. Servono alcuni ingredienti essenziali per porsi sui banchi della vita e apprendere ciò che più ci serve.
Quali sono questi ingredienti?
Sembra assurdo ma il primo ingrediente è 𝐚𝐜𝐜𝐞𝐭𝐭𝐚𝐫𝐞 𝐥𝐚 𝐫𝐞𝐚𝐥𝐭𝐚̀. Spesso pensando a noi stessi, tendiamo ad idealizzarci, a vedere ciò che non c’è e pensare che siamo persone che poi nella realtà non siamo. Diverse favole raccontano in maniera di esempio di pulcini che vorrebbero diventare dei grandi volatili. Con il tempo però capiscono che non possono farlo, semplicemente perché non è nella loro natura. Accettano così la realtà e riescono ad essere felici perché capiscono che per essere felici basta essere sé stessi.
Un po' così anche per imparare. Più cresciamo più crediamo di sapere tutto del mondo: economia, salute, politica… dimentichiamo però che per quanto possiamo essere esperti non potremo mai sapere tutto.
Per imparare serve allora che 𝐚𝐜𝐜𝐞𝐭𝐭𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐨𝐛𝐛𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐚𝐧𝐜𝐨𝐫𝐚 𝐢𝐦𝐩𝐚𝐫𝐚𝐫𝐞.
Il secondo ingrediente è 𝐭𝐫𝐨𝐯𝐚𝐫𝐞 𝐮𝐧 𝐛𝐮𝐨𝐧 𝐦𝐚𝐞𝐬𝐭𝐫𝐨. Può essere una persona o un’esperienza ma serve prima di tutto sviluppare la capacità di capire chi ci può aiutare a crescere e chi invece no.
Pensiamo alla storia di Pinocchio: anche il Gatto e la Volpe si spacciano per dei maestri di vita e convincono Pinocchio a sotterrare i suoi soldi in attesa che cresca un albero di monete. L’esito ce lo ricordiamo bene.
Anche se queste storie le leggiamo da Bambini però non impariamo mai abbastanza e ovunque ci sono persone che, pur essendo poco esperte, si vantano di essere maestri per gli altri perché solo così trovano un senso a ciò che fanno. Ma il vero maestro è chi accetta la possibilità che il suo alunno possa arrivare un giorno ad essere più avanti di lui. Cercare un maestro così è una vera sfida.
La lista sarebbe infinita ma provo a tratteggiare un ultimo ingrediente: 𝐥’𝐞𝐫𝐫𝐨𝐫𝐞.
Sembra paradossale: a prima vista potremmo pensare che in realtà se imparo non sbaglio più. In pratica, basta ricordare quello che diceva 𝐎𝐬𝐜𝐚𝐫 𝐖𝐢𝐥𝐝𝐞: 𝑙𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑒̀ 𝑙’𝑖𝑛𝑠𝑒𝑔𝑛𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑑𝑢𝑟𝑎, 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑎 𝑡𝑖 𝑓𝑎 𝑙’𝑒𝑠𝑎𝑚𝑒 𝑒 𝑝𝑜𝑖 𝑡𝑖 𝑠𝑝𝑖𝑒𝑔𝑎 𝑙𝑎 𝑙𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒.
Solo quando sbagliamo in prima persona impariamo davvero perché viviamo le cose prima di tutto sulla nostra pelle. E ciò che impariamo così non lo dimentichiamo tanto facilmente. Possiamo pensare a quando abbiamo sbagliato qualcosa: quando abbiamo sbagliato le dosi di un piatto o abbiamo detto una parola di troppo con un nostro amico in difficoltà. In quelle occasioni abbiamo fatto nostro il proverbio: “sbagliando si impara”.
Concludendo, per imparare dunque serve un senso della realtà, un buon maestro e un pizzico di errore.
Oltre ovviamente a tanto altro che in questa sede non possiamo esporre in maniera più ampia. Insomma, di imparare non si smette mai. Sicuramente una cosa però con queste poche righe possiamo averla imparata: da tutto e tutti possiamo imparare qualcosa, basta volerlo.
Articolo di ©Marco Facoetti - 8 ottobre 2020
foto di ©Gianni Caminiti
ISTANTANEE
Diversi social network da qualche tempo offrono all’utente una funzione particolare: quando pubblichi una foto, un pensiero o qualsiasi cosa, dopo un periodo significativo di tempo il sistema ti dice: “Ehi ti ricordi che 1 anno/2 anni etc. avevi pubblicato questo aggiornamento?”; questa funzione viene citata con varie denominazioni che potrebbero essere riassunte sotto la dicitura generale “ricordi”. Mi stavo infatti interrogando su cosa volesse dire ricordare, quando un po' ingenuamente ho pensato a questo sistema. Chi ha inventato i social network non era un sempliciotto e sapeva che una funzionalità del genere avrebbe fatto successo. Parte di questo successo è dovuta, secondo il mio confutabilissimo pensiero, al fatto che la nostra memoria funziona proprio così, per istantanee.
L’istantanea è un particolare tipo di macchine fotografiche che permette di ottenere la stampa delle foto in un tempo veramente breve. Questa immagine mi è sembrata un bel modo per descrivere la memoria. Se penso agli anni che ho vissuto ovviamente non posso ricordare se non in maniera molto vaga ogni singolo giorno speso nella mia vita ordinaria. Eppure nella nostra mente si fissano delle instantanee, delle immagini che al momento non hanno per noi un grande valore. Eppure a distanza di anni sono ciò che resta ancorato nella nostra memoria. Se penso infatti ad una persona a me cara, ciò che mi ricorderò sono alcuni momenti vissuti insieme, non tutti. Queste particolari istantanee formate dai ricordi hanno però dentro di sè un’enorme potenza: funzionano come dei simboli. Quando penso infatti ad una di questa istantanee non rivivo solo quel momento singolo ma sperimento in una misura concentrata tutto ciò che avevo vissuto insieme a quella persona.
Se penso a me, funziona proprio in questo modo: ricordo bene infatti l’ultima volta che vidi mio nonno. Era ormai estenuato dalla malattia che lo stava logorando e sono passato a trovarlo per passare un po' di tempo con lui. Non parlammo molto ma fu un momento molto intenso. Quando ripenso a questo momento ho bene in mente il suo volto e i suoi gesti e se in un primo momento l’immagine mi rimanda quel momento difficile, nella mia mente ricordo anche tutti gli altri momenti lieti che ho passato con lui (le passeggiate, le partite a carte…) e spesso mi scappa un sorriso.
Io ho una grande memoria fotografica e come me tanti altri. Ma ognuno ha un suo tipo di memoria e di conseguenza delle istantanee tutte sue: c’è chi ricorda quando passa nei luoghi cari, chi quando sente dei profumi che gli ricordano qualcuno di caro, chi invece conserva degli oggetti con un significato particolare. Ognuno quindi ricorda a modo suo. A me però affascina molto questa dinamica: per ricordare non servono libri lunghissimi o una memoria di elefante ma basta saper trovare queste istantanee che sono la chiave per aprire il cassetto dei nostri ricordi più preziosi.
Mi piace poi immaginare che chi sviluppa ai social network abbia pensato come me a quanto poco basti per ricordare ciò che abbiamo vissuto e abbia fatto il mio stesso ragionamento. Probabilmente non è così ma sognare non costa nulla.
Articolo e foto di ©Marco Facoetti - 24 settembre 2020
RIDERE
“Giuro che un po' mi fa ridere!” Capita a tutti di sentire alla radio uno dei tanti tormentoni pop che risiedono stabili nelle radio italiane. Anche a me è successo e l’ultimo che mi è rimasto in testa è una canzone dal titolo intrigante: Ridere, dei Pinguini Tattici Nucleari. Non entro in merito al valore della canzone ma dopo essermi rimasta in testa diverso tempo ho fatto alcune riflessioni su cosa voglia dire ridere. O meglio: mi sono limitato ad osservare.
Ho così osservato che ridere è una cosa estremamente personale: ognuno ha il suo modo di ridere. C’è infatti chi ride in maniera sguaiata, chi lo fa ridendo “sotto i baffi”, chi fa lunghe e grasse risate e chi esterna poco gustando l’ironia dentro di sé. Tra tutti i sentimenti umani mi è parso uno di quelli che ha più varietà di espressione: potenzialmente tante quante sono le persone presenti al mondo. Inoltre spesso anche la fonte del riso suscita effetti diversi a seconda della persona: quello che non fa ridere me magari fa ridere te.
Ho però anche notato che è uno dei sentimenti più “universalizzanti” esistenti. Già, perché anche se ognuno si esprime a suo modo la risata è potentissima. Numerosi studi lo hanno anche dimostrato. Pensiamo a un gruppo di persone sconosciute che si incontrano per la prima volta: vivranno sicuramente l’imbarazzo e il distacco provocato dal non conoscersi. Eppure basta una sola occasione che faccia ridere insieme e tutti si sentono più a loro agio e predisposti ad aprirsi all’altro. O anche pensiamo a quando vediamo ridere una persona: magari non ci mettiamo subito a ridere anche noi ma sicuramente un sorriso ci scappa.
Ho poi pensato a me e ho notato che nei momenti difficili una sana risata è stata in grado di farmi dimenticare anche solo per un secondo i miei problemi. Ridere aiuta a stemperare le difficoltà e a fare vedere le cose meno scure di quello che sono in realtà; non cancella le difficoltà ma almeno aiuta a prendere per il verso giusto.
Eppure ho anche notato che ridere non è scontato. Ridere infatti implica la disponibilità a lasciarsi andare e a scoprire qualcosa di sé a chi ho di fronte a me. Quando ci troviamo in un contesto che non ci mette a nostro agio, non sempre siamo disposti a lasciarci andare alle risate. O anche quando siamo concentrati su un lavoro: non possiamo perdere di vista nulla e allora la risata è difficile. Lo possiamo pensare anche all’opposto: quando siamo più disposti a ridere e a scherzare? Quando stiamo con persone che ci fanno stare bene. Penso che tutti ricorderemo sicuramente che le situazioni in cui abbiamo riso di più sono stati momenti condivisi con amici, parenti o persone di cui ci fidavamo.
In conclusione ridere fa bene ma non è facile.
Citando un detto famoso: “ridere è una cosa seria, non lo si può fare con chiunque”. Credo però che lasciarsi andare ad una sana risata insieme ad altre persone spesso sia una delle cure migliori per le giornate storte, molto di più di qualsiasi altra cosa. E visto il periodo che stiamo vivendo, ogni tanto riderci sopra nella misura giusta (senza sottovalutare nulla), ci può fare solo che bene.
Articolo di ©Marco Facoetti - 27 agosto 2020
Immagine: un fotogramma del film OMBRA E IL POETA
IDEALE
Ad Urbino, nella galleria nazionale delle Marche è conservato questo dipinto che raffigura una città. La città è bella, pulita, geometrica ed ordinata. I palazzi sono costruiti nello stesso stile della strada; il palazzo circolare di fronte a noi domina la scena perfetto nella sua staticità.
Troppo bello per essere vero; infatti una città così non esiste né mai esisterà. Ma se è stato disegnato un motivo c’è; questo artefatto risale all’epoca rinascimentali in cui intellettuali e artisti coltivavano il sogno di un mondo a misura delle loro idee: perfetto e senza macchia. Con gli anni si resero poi conto che un progetto del genere era solo un’illusione.
Anche la stessa parola “ideale” ha in sé il senso di qualcosa di troppo bello per essere vero. La parola “idea” da cui deriva è stata usata in maniera esplicita per la prima volta da Platone. Nel suo ragionamento filosofico egli aveva ipotizzato che le cose che vediamo intorno a noi non fossero altro che delle riproduzioni imperfette. Queste riproduzioni si basavano su dei modelli perfetti che erano la norma su cui costruire il mondo: questi modelli erano appunto le idee. Le idee secondo Platone sono entità che stanno fuori dal mondo e su cui il mondo è stato progettato (o almeno così mi pare di ricordare). Belle dunque le idee: precise, pulite, senza difetti. Ma anche loro troppo per essere vere.
La grande insidia delle idee è già chiara ai nostri occhi: le idee non sono la realtà. Ma la tentazione di usare le idee come norma della nostra vita è anche troppo forte. Pensiamo ad un’adolescente che si guarda allo specchio e non si piace: nella sua testa si è costruita un ideale a cui assomigliare e visto che non ci assomiglia neanche un po', non si piace.
Oppure pensiamo ad un giovane che si affaccia sul mondo del lavoro: nella sua testa ha ben chiaro quale sarà il suo lavoro ideale; ma nel suo percorso dovrà accettare che il lavoro ideale (per come lo pensa lui) non esiste. In sintesi l’ideale non esiste.
Eppure…
Eppure non per forza è un male. Se l’ideale si potesse raggiungere probabilmente passeremmo gran parte della nostra vita a cercare di raggiungerlo per poi goderne solo un attimo. Invece capire che questo ideale è irraggiungibile è liberante: ci fa capire che la felicità è a portata di mano perché c’è anche nelle nostre vite imperfette. In queste vite ci sono lavori imperfetti, relazioni imperfette e scelte imperfette ma è proprio in queste imperfezioni che passa la bellezza e la gioia vera. Oserei allora dire: chissenefrega dell’ideale perché la vita è altro e a noi è della vita che importa non di chimere irraggiungibili.
Quindi quadri come questo servono proprio a questo: ci ricordano che la vita non è quello che vediamo rappresentato ma è qualcosa più a portata di mano. Basta solo ricordarselo.
Articolo e foto di ©Marco Facoetti - 23 luglio 2020
L'ARTE DEI DETTAGLI
Un’arte che mi ha sempre affascinato è l’arte del riconoscimento. Forse esagero a definirla arte ma questa capacità particolare di distinguere le cose mi affascina molto. Iniziai a restare affascinato diversi anni fa durante una visita guidata ad una mostra.
La guida ci spiegava come gli studiosi facevano per attribuire un quadro ad un pittore piuttosto che ad un altro: il loro metodo era riconoscere i dettagli. I grandi artisti nei loro capolavori inseriscono sempre un loro marchio di fabbrica che rende le loro opere uniche: può essere l’uso della luce o la costruzione dell’opera.
Ma spesso sono i piccoli particolari che ci aiutano in questa operazione: una mano disegnata in un certo modo o dei piccoli oggetti ricorrenti nelle rappresentazioni.
Col tempo poi non ho dato troppa importanza a questa informazione; ma ultimamente ne sto riscoprendo la preziosità.
Lo diceva anche l’architetto tedesco Mies van der Rohe:
"𝐷𝑖𝑜 𝑠𝑡𝑎 𝑛𝑒𝑖 𝑑𝑒𝑡𝑡𝑎𝑔𝑙𝑖".
Indipendentemente dalla fede che una persona può nutrire per qualcosa o qualcuno di più grande questa frase, mi ricorda che è davvero attraverso piccoli particolari che si possono fare grandi differenze.
Anche in questi giorni ci stiamo reinventando e ci stiamo riabituando a fare cose che per qualche tempo ci sono state impedite per salvaguardare la salute di tutti: incontrare le persone care, uscire a fare passi e concedersi qualche svago. Ma sappiamo bene che non tutto è come prima perché le condizioni in cui viviamo parlano da sole e soprattutto entrare in contatto con altre persone (nei limiti del consentito) non è come prima.
Eppure guardandomi intorno sento che se tanto è cambiato, molte cose non sono cambiate: non è cambiato il sorriso con cui un commerciante di paese ti accoglie nel suo negozio che dopo tanto tempo ha potuto riaprire, anche se questo sorriso lo puoi solo intuire da dietro una mascherina. Non è cambiato il modo con cui due fidanzati si guardano di persona, dopo mesi in cui non hanno potuto vedersi se non dietro uno schermo. Non è cambiata la cura con cui una mamma prepara il pranzo per la sua famiglia dopo mesi difficili a livello emotivo.
Sono le piccole cose a non essere cambiate; eppure sono proprio queste piccole cose che nella nostra vita quotidiana fanno la differenza.
E paradossalmente sono proprio questi piccoli particolari (anche quando sono impercettibili) che ci caratterizzano e ci rendono unici.
Lo sappiamo guardando le nostre dita, che i piccoli segni che sono impressi nella pelle dei nostri polpastrelli sono unici e inimitabili e nessuno potrà averli esattamente uguali a noi.
Questi piccoli dettagli però non sono facili da riconoscere: serve ascolto e attenzione. Perché spesso passano inosservati e rischiamo di perdere di vista grandi opportunità di conoscere chi ci sta attorno.
Non è facile ma è una bella sfida: si tratta infatti di imparare ad avere nuovi occhi per guardare il mondo.
Io però ci voglio provare: e voi?
Articolo e foto di © Marco Facoetti - 1 luglio 2020
RINASCITA
Nella vita di una persona alcuni momenti restano nella memoria in maniera indelebile. Tanti momenti rituali scandiscono la nostra vita e segnano il nostro cammino.
Ma i momenti più importanti sono quelli che meno ci aspettiamo e più difficili da definire: sono quando le persone rinascono.
Non è semplice stabilire quando avvengano: per qualcuno prima, per qualcun altro dopo. Ogni storia ha le sue particolarità che la rendono unica e ogni storia dunque ha la sua rinascita in una maniera unica, diversa dalle altre.
Ma quali sono gli ingredienti per poter rinascere?
Il primo ingrediente è la vita.
Possiamo rinascere solo quando viviamo a pieno la nostra vita, impegnando, progettando e dando il nostro meglio. Ogni persona ha in sé sogni, aspettative e progetti che nascono da ciò che vive ordinariamente. Si dice spesso che la vita vale solo se vissuta a pieno. Così per sperimentare veramente cosa sia la rinascita serve vivere appieno la propria vita, gustandola fino in fondo e sognando qualcosa di grande.
Il secondo è la sconfitta.
Quando proviamo a vivere la vita in maniera piena facciamo progetti e sogniamo un futuro in grande. Ma non sempre le cose vanno come avevamo previsto e quello che sembrava un bel sogno si rivela un’illusione. Quando meno ce lo aspettiamo i nostri piani vengono gettati in aria. Ogni tanto è colpa nostra, ogni tanto no. Succede allora un po' come succede ad una pianta: noi piantiamo il seme e sogniamo che col tempo possa diventare un grande albero in grado di dare frutto e ripararci dal sole nelle calde giornate d’estate. Ma capitano anche stagioni secche o troppo piovose che mettono in difficoltà il seme: può superare queste difficoltà ma non sempre ce la fa.
Solo quando la sconfitta mette a dura prova la vita vissuta a pieno entra in campo il terzo ingrediente della rinascita: la scelta. Le sconfitte capitano, ma la rinascita non capita. Quando subiamo una battuta di arresto possiamo ripartire o fermarci: la differenza sta solo in quello che scegliamo di fare. Quando le sfortune o le difficoltà sembrano avere la meglio su di noi c’è un solo modo per ripartire: prendere in mano la nostra vita e scegliere con decisione di ripartire. Non è mai facile: rischiamo spesso di fermarci di fronte alla sconfitta e ci sembra di non avere la forza di ripartire. Ma è se vogliamo ricominciare a vivere una vita piena come quella che stavamo vivendo prima di essere sconfitti e di cadere, è necessario scegliere di ripartire.
La realtà che stiamo vivendo ci parla di una rinascita che deve avvenire e che vogliamo che succeda in tempi brevi. E ci sembra di doverlo fare come se fosse la prima volta. Forse sarà davvero la prima volta che avverrà in questo modo; ma basta guardare dentro di noi per scoprire che non è così. Nella nostra vita abbiamo già vissuto delle piccole e grandi sconfitte. Ma queste non ci hanno impedito di fermarci e di bloccarci: siamo andati avanti inventando nuovi modi di essere e scoprendo che dentro di noi c’erano risorse che nemmeno pensavamo di avere.
Articolo e foto di ©Marco Facoetti - 28 maggio 2020
IMMAGINARE
Una delle cose che preferisco in assoluto è avere a disposizione un grande spazio su cui poter liberamente scrivere, cancellare, disegnare, fare e anche sbagliare. In questo scopo le lavagne sono le mie preferite perché puoi fare e rifare tante volte quante ne vuoi.
Ma immaginare e rappresentare di conseguenza non è sempre semplice; perché non sempre le cose vanno bene e non sempre abbiamo chiaro in noi quello che vogliamo. Anche i bambini lo sanno bene: spesso se dici a un bambino "fai un disegno" potrebbe risponderti "non so cosa disegnare".
Anche oggi per noi immaginare non è semplice: le incertezze e i dubbi sono tanti. Ma dobbiamo provarci: solo così potremo regalarci ila possibilità di sentirci liberi nel nostro domani.
Articolo di ©Marco Facoetti - 22 aprile 2020
foto: un disegno di Elia Caminiti
RITMO
Quando le nostre abitudini cambiano la prima cosa che perdiamo e dobbiamo ritrovare è il ritmo.
Ognuno ha la sua routine che va avanti senza sosta alternando i vari momenti e situazioni che compongono la nostra vita. Un po' ci pesa e un po' ci piace ma sappiamo che è così e non ci possiamo fare granché.
Quando poi succede qualcosa di imprevisto che ci obbliga a modificarlo, capita di andare il tilt.
Pensiamo alla musica: ogni composizione musicale ha un ritmo che ne consente lo svolgersi.
Può cambiare? Sì, ed in tal caso il brano non è facile da eseguire ma si arricchisce.
Così anche noi: possiamo cambiare ritmo alle nostre abitudini?
Sì e nemmeno per noi è facile. Ma nessuno ha detto che dietro non ci sia una ricchezza inaspettata.
Articolo di ©Marco Facoetti - 25 marzo 2020
Foto: un fotogramma del film "Ombra e il Poeta"
ORIZZONTE
Quando sei in viaggio una delle cose più belle (almeno per me) è scrutare l'orizzonte.
Guardi davanti a te e cerchi di capire cosa ti aspetta nel tuo viaggio: monti, case, paesi. A volte però l'orizzonte ti inganna perchè non è l'esatte descrizione di quello che troverai. Puoi sempre trovare sul tuo cammino un paese che da lontano non si vedeva o fare esperienze inaspettate.
L'orizzonte offre quindi un assaggio che non esaurisce l'esperienza.
Sta a te scegliere se fidarti o meno di quello che ti trovi davanti per continuare nel cammino.
Articolo di ©Marco Facoetti - 23 marzo 2020
Foto: un fotogramma del film "Ombra e il Poeta"
IL LATO ARGENTEO
DELLE NUVOLE
Qualche anno fa guardando un film imparai un modo di dire tipico della lingua anglosassone: ogni nuvola ha un orlo argentato.
L'espressione mi colpì molto per la sua originalità. il proverbio indica una grande verità, semplice da esprimere ma non così semplice da applicare.
Ogni nuvola infatti copre il sole e porta ombra; nonostante questo però ha un lato argenteo che riluce e lascia trasparire un po' di luce.
Il gioco è scoprire dove sia questo lato argenteo.
I proverbi esprimono la saggezza popolare, sedimentata nel corso degli anni e sono la nostra storia. La nostra storia allora ci ricorda che ogni volta che sembra di vedere più scuro, c'è sempre un piccolo lato argenteo.
Forse ora non lo vediamo ed è difficile trovarlo, ma provare a cercarlo non costa nulla.
Artiolo e foto di © Marco Facoetti - 20 marzo 2020
MEMORIA
La natura senza chiederlo sa darci risposte sorprendenti.
Gli alberi ci insegnano per esempio come funziona la memoria.
Quando eravamo bambini, a scuola o nei boschi con mamma e papà, abbiamo scoperto che ogni albero, aumenta in grandezza anno dopo anno. Piano piano da un piccolo fusto diventa un albero maestoso su cui gli uccelli possono fare i loro nidi.
Abbiamo poi scoperto, guardando le sezioni dei tronchi, che man mano cresce l'albero conserva memoria di ciò che ha passato. Ogni anello è diverso dagli altri: alcuni ricordano anni prosperi, altri anni in cui le condizioni climatiche non sono state così favorevoli.
Ma l'albero conserva tutto: non importa che sia stato bello o brutto, tutto è servito per diventare quello che è.
Siamo anche noi così anche se non ce ne accorgiamo: di tutto quello che viviamo resta una traccia in noi.
Qualcosa lo vorremmo dimenticare se potessimo.
Ma l'albero ci insegna che anche quello è servito per diventare chi oggi siamo.
Articolo e foto di ©Marco Facoetti - 18 marzo 2020
TEMPO
Una grande sfida per l'uomo lungo i secoli è stata quella di rendere visibile l'invisibile.
Tutto ciò che sotto molti aspetti non può essere visto, l'uomo ha cercato di raffigurarlo o raccontarlo: Dio, le emozioni, l'anima.
Anche il tempo ha subito la stesa sorte: nessuno lo può vedere ma tutti lo vogliono rappresentare.
Pensiamo alla nostra vita quotidiana: agende, orologi, calendari, tabelle orarie: tanti modi (necessari) per dare un volto a ciò che non si vede.
In alcune occasioni però il tempo lo percepiamo di più del solito e lo sentiamo sulla nostra pelle.
Il tempo allora diventa una sfida e un'opportunità.
Un'opportunità perché diventa lo spazio in cui far accadere eventi che altrove non potrebbero accadere. Ma diventa anche una sfida: il tempo ci spinge infatti a ripensarci e a chiederci cosa è degno della nostra attenzione e per cui valga la pena investire parte della nostra vita.
Così anche in questo momento per chi è chiamato a fare la sua parte fermandosi il tempo diventa questo: opportunità e sfida.
E tu come lo percepisci? Più come sfida o come opportunità?
Articolo di ©Marco Facoetti - 17 marzo 2020
Foto: un fotogramma del film "Ombra e il Poeta"
VENTO
In questi giorni di mobilità ridotta, anche un dettaglio è capace di provocare una riflessione.
In una giornata di bel tempo come oggi è stato spontaneo affacciarsi alla finestra.
Ho così potuto scorgere da alcuni dettagli (le foglie degli alberi, alcune girandole sui balconi) che il vento, leggero e morbido, si stava alzando.
Questa piacevole brezza mi ha riportato alla mente che la leggerezza in giorni come questi è importante.
La leggerezza spesso è scambiata per banalità. Mi piace pensare però che non sia così. Anche un aquilone è leggero e solo così può librarsi in alto e prendere il volo. La leggerezza permette infatti di percepire anche ciò che è più flebile perché non viene detto con forza. La leggerezza può servire allora a cogliere ciò che di nuovo c'è, anche se non viene sbandierato a voce alta.
Perché in giornate che sembrano in apparenza scorrere le une uguali alle altre la leggerezza ci può aiutare a vedere qualcosa di nuovo.
E questo può farci solo che del bene.
Articolo di ©Marco Facoetti - 16 marzo 2020
Ffoto: un fotogramma del film "Ombra e il Poeta"
CASUALMENTE
Quando hai tanto tempo a disposizione ti capita di trovare cose che hai da tempo in casa e di cui ne hai completamente scordato l'esistenza. Come questi dadi per raccontare le storie per esempio.
Per farla breve, casualmente trovi oggetti che casualmente erano finiti in tuo possesso (e che in caso come questo rappresentano il caso per eccellenza).
Troppe casualità.
Ma quando di tempo ne hai, anche una piccola casualità può regalarti qualcosa di nuovo: fa riaffiorare un ricordo di un tempo lontano, riaccende in te una passione che avevi dimenticato o addirittura può far nascere in te un nuovo interesse.
Allora ciò che era avvenuto casualmente può essere il principio di qualcosa di nuovo in te che non è più casuale ma lo hai voluto e cercato.
Ciò che allora era cominciato casualmente diventa una scelta. Dal caso all'opportunità di qualcosa di nuovo non passa molto.
Basta lasciarsi provocare.
Articol e foto di ©Marco Facoetti - 15 marzo 2020
CERTEZZE
Sulla tastiera abbiamo a disposizione diversi segni grafici.
Sopra i tasti delle lettere, abbiamo i numeri e ad ogni numero è anche associato un segno.
Il primo numero è associato al primo segno: il punto esclamativo.
Sulla tastiera è all'opposto rispetto al punto interrogativo.
Come il punto di domanda anche questo non viene pronunciato.
Il punto esclamativo mi ricorda molto i fumetti: tante espressioni grafiche o versi dei protagonisti terminano con un punto esclamativo. Eppure non ricordo un tema in cui ne abbia usato uno.
Il punto esclamativo dice infatti la sorpresa. Esprime la reazione di fronte a qualcosa di inaspettato e imprevisto. Un po' come quando restiamo a bocca aperta e non sappiamo cosa dire. Il punto esclamativo esprime tutto questo.
Allora possiamo immaginare che se sula tastiera i segni ! e ? sono ai due punti opposti è perché chi ha immaginato i nostri computer è stato lì a pensare se aveva senso fare una cosa del genere.
Secondo me è perché il nostro ingegnere ha capito che le grandi domande della vita nascono da una sorpresa.
Se ci lasciamo sorprendere da tutto ciò che è inaspettato e ci lasciamo provocare possiamo fare in modo che dentro di noi nascano nuove domande e nuove provocazioni. Non c'è una domanda infatti se all'inizio non c'è una sorpresa. Non c'è ? se prima non c'è anche !
Articolo e Foto di ©Marco Facoetti - 13 marzo 2020
DOMANDE
Non ho idea di quante volte nelle vostre giornate vedete il segno grafico del punto di domanda.
Dipende da tanti fattori (quanto leggi? Cosa guardi? Scrivi?). Sicuramente però lo stiamo sentendo in bocca a tante persone con cui abbiamo modo di parlare.
Il punto interrogativo infatti non lo si pronuncia ma dà alle nostre frasi un'enfasi e una sospensione che chiede a chi ci sta di fronte di aiutarci a scoprire qualcosa che non sappiamo.
E diciamocelo, siamo in un periodo in cui vorremmo sapere tante cose, ma dare risposte chiare non è sempre facile.
C'è però una domanda che risuona anche più forte in ognuno di noi: io cosa posso fare?
Perché anche chi non è direttamente coinvolto può e deve dare il suo contributo. Rispettando le regole, in primo luogo.
Ma ognuno può trovare il suo modo di fare la sua parte.
Con molta semplicità e senza pretese io proverò a fare la mia, come ho già fatto in passato.
Qualche parola e qualche immagine per provare a pensare e a riflettere
Articolo e foto di ©Marco Facoetti - 12 marzo 2020
TASSELLI
Non capita di farci caso solitamente. Ma se mi fermo a guardare il terreno su cui cammino, specie se non è naturale ma costruito dall’uomo mi renderò ben presto conto che ciò che ho di fronte non è un pezzo unico ma un insieme di tasselli.
A volte poi abbiamo anche deciso di sfruttare questa possibilità per farne dei piccoli capolavori artistici attraverso la tecnica del mosaico.
Ogni pezzo, per quanto piccolo è essenziale al tutto.
Ogni pezzo.
Quindi anche io, per quanto possa essere piccolo, posso fare qualcosa per chi mi sta vicino e chiedere a mia volta aiuto quando ne sento la necessità.
Solo così, se ognuno ci mette del suo e fa la sua parte ne può uscire un capolavoro. Su cui magari altri cammineranno senza pensarci troppo, ma io so che ho fatto la mia parte.
E ogni momento è buono per fare la propria parte.
Articolo di ©Marco Facoetti - 11 marzo 2020
Foto di © Gianni Caminiti
LIMITI
Non piace a nessuno avere dei limiti. Specie se qualcuno ce li impone e non siamo noi a sceglierli.
In ogni fase della vita è così, ma in alcune lo sperimentiamo un po' di più.
Non ci piace perché preferiamo sognare di poter fare qualunque cosa.
Ma il limite è una dimensione umana e dobbiamo prenderne atto.
Così le cose che facciamo assumeranno una dimensione totalmente diversa.
Di esempi ne abbiamo tanti sotto gli occhi.
Per chi ha difficoltà di movimento anche fare una passeggiata può essere un grande risultato. Per chi è abituato a muoversi e a fare una vita dinamica anche stare tanti giorni in casa è un po' come superare il proprio limite.
Ma il limite ci definisce e, se anche con il tempo può essere superato, ci aiuta a capire chi siamo.
La fisica ce lo dimostra: un qualsiasi liquido ha bisogno di un contenitore che lo trattenga per avere una sua forma e consistenza e per permettere che possa essere utilizzato.
Una tazza ha una sua capacità massima e dunque è limitata. Ma se così non fosse sarebbe inutile: nessuno potrebbe berci.
Quindi no, nono sono i limiti a scrivere la nostra carta d'identità ma sicuramente ci aiutano a capire un po' più a fondo chi siamo.
Solo così, al momento opportuno e non prima, potremo superarli
Articolo e foto di ©Marco Facoetti - 10 marzo 2020
IL SEGRETO DELLA PIZZA
Ogni capolavoro è tale perché ha il suo segreto. La cupola del duomo di Firenze costruita da Brunelleschi regge da secoli, quando allora nessuno ci credeva. Brunelleschi aveva il suo segreto. Così i quadri di Caravaggio: la società dell’epoca lì definì scandalosi e alcuni di essi andarono dunque distrutti; ma oggi i turisti fanno la fila per poterli vedere per qualche minuto. Caravaggio aveva il suo segreto. Così Michelangelo che estraeva dalla pietra figure di uomini per farne statue. Nessuno sapeva come, ma lui ci riusciva. Anche lui aveva il suo segreto.
Ogni opera d’arte che si rispetti ha il suo piccolo segreto che solo l’artista conosce. Questo segreto è quello che la rende stupenda davanti agli occhi delle persone. Tutti infatti sanno che c’è qualcosa che rende speciali queste opere, tanto da essere irripetibili. Tra le opere d’arte che la storia ci ha regalato ci sono anche le ricette, frutto dell’arte culinaria di ogni epoca e regione. Come gli artisti anche i cuochi hanno i loro piccoli segreti. Se ogni opera d’arte e ogni piatto ha un segreto, quale è il segreto della pizza?
Me lo sono chiesto a lungo e trovarlo non è stato facile. A prima vista infatti la pizza mi è sembrata un piatto semplice da fare: stendi la pasta, aggiungi il pomodoro, metti un po' di mozzarella e qualche condimento a scelta. Scaldi il forno, aspetti un po' e tutti in tavola! In fondo, mi dicevo, potrei farcela anche io con poco sforzo. Eppure sentivo che c’era qualcosa di più che mi sfuggiva. Sembrava impossibile: la ricetta era quella, cosa poteva mai mancare? Ripeti i passaggi e trova cosa non va: stendi la pasta, aggiungi il pomodoro… ma ancora le cose sembravano non tornare. Mi sono detto: va be’ lasciamo perdere che è meglio. Dopo qualche tempo è riaffiorato alla mente questo dilemma durante una serata in pizzeria con alcuni amici. Il cameriere parlava ed esponeva le qualità del nuovo impasto ad alta digeribilità: “il nostro impasto è lasciato lievitare per più tempo dei normali impasti…” e mentre parlava capii: il segreto era il tempo.
La pizza si fa con il lievito e il lievito ha bisogno di calma e di tempo per attivare il processo chimico che lo fa aumentare di consistenza. Il segreto della pizza è dunque questo: il tempo. Quando c’è un’attesa c’è sempre infatti dietro una cura. Così anche per la pizza, se serve tempo per produrre una buona pizza vuol dire che tanta più cura viene posta nella preparazione, tanto più buono sarà per il palato assaggiarla.
Quando mangeremo la nostra prossima pizza sarà allora più buona se ci ricorderemo che per farla ci è voluto del tempo e che in cucina tempo fa rima con cura.
Articolo e foto di ©Marco Facoetti - 4 marzo 2020
I NOMI DELLA PAURA
Quando sono a casa la sera mi capita di guardare ogni tanto spezzoni di quiz televisivi. Tra le domande capita anche la domanda sui nomi delle paure. Per esempio: come si chiama la paura dei ragni? Se il concorrente è preparato dovrebbe rispondere “aracnofobia”. Oppure “cosa è la claustrofobia?” e in quel caso si risponderebbe correttamente dicendo: “la paura dei luoghi chiusi”. Tecnicamente parlando la fobia e la paura non sono la stessa cosa. Mi ha però colpito questo: l’uomo nel corso della storia ha speso tempo a coniare un nome specifico per ognuna delle paure più ricorrenti. Quasi a dire: abbiamo paura solo di quello che non conosciamo. Se diamo un nome alle cose ci illudiamo di conoscerle di più e la paura viene meno.
Ciò non toglie che le paure e le fobie che sono state scoperte sono tantissime e di tantissimi tipi. C’è chi ha paura di una cosa e chi di un’altra. C’è chi ha paura per ragioni che trovano radice nel suo passato. Come c’è anche chi ha paure che non hanno spiegazioni: come tutte le emozioni anche queste si sperimentano in determinate condizioni. Potremmo addirittura dire che ognuno ha paura nei confronti di qualcosa di diverso. Ciò che non fa paura a te, lo fa a me.
Così ognuno vive la propria paura in modo diverso dagli altri. Arriva infatti per tutti quel momento della vita in cui dobbiamo affrontare le nostre paure e fare un passo avanti. Farlo non è facile. Tutti però hanno la capacità di trovare un modo unico e singolare per affrontare le paure. Ognuno infatti vive le sue paure da solo e da solo trova un modo adatto per superarle. Da una parte c’è chi decide di farlo singolarmente. Non lo fa con cattiveria o superbia ma in quel momento della vita sente che è una cosa che deve fare da solo. Egli cerca in sé stesso le forze e le risorse migliori per affrontare quel nemico che da tempo lo aspetta nell’oscurità e fargli capire chi è che comanda. E come sempre accade, ogni tanto si vince e ogni tanto si perde.
Dall’altra parte c’è anche chi affronta le paure cercando una mano amica che possa accompagnarlo. In quei momenti capiamo che da soli non ce la facciamo e abbiamo bisogno di sentire accanto a noi qualcuno che ci vuol bene e ci dice nell’orecchio: “coraggio, ci sono io con te”. Questo amico tenendoci per mano non fa il lavoro al posto nostro. Sa che solo chi vive la paura può affrontarla. Ma sa anche che quando abbiamo qualcuno che cammina accanto a noi le cose sono più semplici. E se non siamo da soli, anche il mostro più brutto e spaventoso che ci possa essere fa un po' meno paura. Chissà che grazie alla paura non scopriamo di avere vicino a noi un amico che nemmeno sapevamo di avere.
La paura ci aiuta a riscoprire chi davvero ci vuol bene. Perché nel momento più buio non se ne va. Perché capisce quando da soli non ce la facciamo. Perché sa che ogni peso, per quanto ingombrante possa essere, se lo si porta in due è un po' più leggero. Il vero coraggio non sta dunque nel compiere imprese straordinarie ma nello stare accanto a chi ha paura e tenergli la mano.
Quando allora ci capiterà di avere paura basterà tendere la nostra mano e chi meno ce l’aspettiamo sarà lì pronto a stringerla.
Articolo e foto di ©Marco Facoetti - 21 febbraio 2020
Editing della foto Chiara Resenterra
LA RELAZIONE E’ UNA
CATEGORIA ACCIDENTALE?
Cercare di definire cosa sia una relazione è un vero esercizio di prospettiva. Nel corso dei miei studi filosofici mi sono imbattuto in Aristotele. Il grande filosofo greco quando prova a spiegare quali siano le caratteristiche tipiche di ogni ente, definisce la relazione come una categoria “accidentale”. In altre parole secondo lui ogni essere (anche l’uomo) è sempre in relazione con gli altri esseri; tuttavia questa caratteristica è “accidentale”: anche quando si entra in relazione la propria identità non cambia (non me ne vogliano i professori di filosofia se c’è qualche imprecisione).
Ovviamente la filosofia ha fatto dei passaggi significativi nei secoli successivi, ma sono rimasto comunque colpito da questa affermazione. Mi sono lasciato infatti suggestionare da questo pensiero e mi sono chiesto: è mai possibile che le relazioni che viviamo non cambino un po' di noi stessi e della nostra identità? E in fondo cosa può essere davvero una relazione?
Ho pensato allora ad un’immagine simbolica: due fiammiferi che ardono l’uno accanto all’altro. I fiammiferi sono differenti, ognuno è autonomo e indipendente e da solo ha tutto quello che gli serve per poter dare origine ad una fiamma autonoma. Eppure se li metto accanto, non vedo due fiamme distinte ma in maniera naturale vedo un’unica fiamma che nasce dalle singole fiamme dei due fiammiferi. Da due fiammiferi quindi nasce una sola fiamma.
Allo stesso modo anche le relazioni che viviamo, dalle più intense alle più marginali. Ogni persona è come un fiammifero che vive e porta in sé desideri, sogni, emozioni, progetti come anche paure, ansie e preoccupazioni che si manifestano nella vita di tutti i giorni. Queste emozioni e sentimenti sono quelli che bruciano più intensamente in noi e ci danno vita. Ma come noi anche chi ci sta accanto vive emozioni e sentimenti propri. Senza che nessuno lo decida però ci capita di trovarci a fianco l’uno all’altro. E in quel momento, (in misure differenti a seconda dei contesti e delle persone coinvolte) ciò che ci brucia dentro incontra ciò che brucia dentro a chi mi sta accanto. E se da fuori può sembrare qualcosa di normale (ogni fiamma di un fiammifero in fondo sembra uguale a quella di tante altre) per chi vive quell’incontro succede un evento unico e irripetibile. In fondo per quanto ogni tanto sfuggano dalla comprensione più superficiale le relazioni non sono altro che questo: un bruciare insieme e condividere quello che si agita dentro di noi. Infine, come tutte le fiamme che quando bruciano consumano irrevocabilmente ciò che le alimenta, così le relazioni quando nascono e vengono vissute in maniera vera ed autentica, cambiano per sempre chi le vive.
Questo succede con tutte le persone che incontriamo davvero e con cui condividiamo qualcosa di autentico (anche se piccolo) della nostra vita. Per ognuna di queste persone infatti potremmo interrogarci e trovare qualcosa di noi che è cambiato dopo averle conosciute.
Penso che il bello sia proprio questo: vivere le relazioni e lasciarsi cambiare da loro, dando qualcosa di noi stessi e ricevendo in cambio molto altro, per uscirne cambiati. A volte, poi, in questi incontri capita anche di incontrare qualche persone con cui riusciamo a bruciare in maniera più intensa e decidiamo di restarvi accanto molto più a lungo. Quando questo succede la fiamma che ne nasce è di un’intensità e di un calore particolare: in quel caso allora lo chiamiamo amore.
Quindi caro il mio Aristotele: avrai avuto anche le tue buone ragioni, ma forse le relazioni sono qualcosa di molto più profondo e radicale di quello che pensi. Ma in fondo anche tu nella tua vita lo avrai sperimentato.
Articolo e foto di ©Marco Facoetti - 5 febbraio 2020
editing della foto Chiara Resenterra
APPARTENENZA
Dopo anni come animatore nei centri estivi impari migliaia di varianti dei medesimi semplici giochi.
Uno di questi è il classico percorso a staffetta: la squadra disposta in fila indiana si appresta a fare un percorso seguendo le varianti che di volta in volta gli animatori ti propongono. Una possibilità spesso usata è quella di far percorrere ai bambini il tragitto in coppie, legando con un nastro o un piede o un braccio della coppia.
Come si può immaginare in questo caso la difficoltà sarà camminare insieme e fare gesti semplici (se fatti da soli) che ora saranno un pochino più difficili: rispetto al solito non si è da soli a camminare.
Questo nastro che lega le coppie di bambini nel loro percorso mi sembra una bella immagine e suscita alcune riflessioni. In un mondo che propone come valore l’indipendenza da tutto e da tutti, a tutti i costi, riconoscere che apparteniamo a qualcun altro non è sempre così semplice. La nostra società si caratterizza sempre di più per una grande volatilità nelle relazioni di tutti i tipi: tu sei qualcuno per me (un amico, un collega…) solo se decido che tu lo sei. Altrimenti sconosciuti come prima. Tutto ciò nasconde l’illusione che, volendo, potremmo fare davvero a meno di tutti.
Eppure no. Le esperienze autentiche della vita ci dimostrano che spesso e volentieri le cose non stanno così. Già da piccoli scopriamo che non bastiamo a noi stessi e che qualcuno ci deve insegnare le piccole grandi cose della vita come mangiare, camminare, divertirsi. Crescendo scopriamo anche che se giochiamo da soli è bello, se lo facciamo con qualcun altro è più bello. Non solo: se lo facciamo con quell’amico o quell’amica che conosciamo da tanto tempo, con cui giochiamo sempre, anche nei giorni in cui il cielo è più grigio, riusciamo con lui a trovare un sorriso. Con gli anni poi, capita a qualcuno di capire che da soli si sta bene, ma che per stare davvero bene con noi stessi abbiamo anche bisogno di quella persona che con noi ha condiviso i momenti belli e brutti della vita, che ci conosce fino in fondo e che sa stare accanto a noi, senza dire niente ma trovando i gesti giusti per aiutarci.
Quindi si, da soli forse è più facile ma è quando stiamo con le persone a cui teniamo di più che riscopriamo noi stessi. In quel momento non abbiamo paura di riconoscere che apparteniamo davvero a loro perché loro sono una delle parti più belle della nostra vita. E se qualcuno ce lo chiedesse non avremmo a paura a dire: io gli/le appartengo.
Così anche i bambini “legati” che fanno il percorso a coppie: magari ancora non lo sanno e trovano fastidioso dover camminare ostacolati da un altro che gli sta attaccato. Ma sono fortunati: senza saperlo fanno esperienza che solo riconoscendo di appartenere a qualcuno riusciranno ad andare lontano.
Ma chi è davvero indipendente?
Tu vuoi essere indipendente
È poi felice chi è indipendente da tutto?
Indipendente
Dall'ossigeno
Dal denaro
Indipendente
Dal consiglio di un amico
Indipendente
Da un passaggio verso casa
Dalla donna che si sposa
Indipendente – N. Fabi
Articolo di ©Marco Facoetti - 28 gennaio 2020
Editing della foto Chiara Resenterra
INVERNO
La stagione invernale secondo me è una stagione “negativa”.
Provando a descrivere l’inverno sarebbe più facile infatti dire cosa non c’è, rispetto a quello che c’è. Il paragone con le altre stagioni rende bene l’idea: la primavera con il primo caldo porta nuova vita alla natura, l’estate è il manifestarsi pieno della natura, l’autunno raccoglie i frutti del caldo estivo. D’inverno niente di tutto questo. I bambini, con il loro modo di pensare semplice ma efficace ci possono essere molto d’aiuto; quando imparano la ciclicità delle stagioni, la rappresentano con i disegni degli alberi: un albero in fiore per la primavera, un albero pieno di foglie verdi per l’estate, un albero con meno foglie ma gialle e rosse per l’autunno. L’inverno, invece, è rappresentato da un albero senza foglie.
Un altro ambito significativo in questo senso è quello dell’agricoltura. Tralasciando le coltivazioni su grandi quantità, chi tra noi ha la passione dell’orto sa che questa stagione è forse la stagione in cui si può fare di meno: non nasceranno nuovi germogli né ci saranno frutti da raccogliere. Bisogna solo proteggere dal freddo e attendere.
Come spesso capita, la natura è un riflesso di quello che tutti possiamo vivere interiormente. In inverno le basse temperature e le condizioni climatiche più avverse scoraggiano dall'uscire e trascorrere tempo fuori.
La poca luce a disposizione durante il giorno fa emergere di più la nostra stanchezza.
Gli animali infatti vanno in letargo, noi, presi dalle nostre quotidiane attività, non ce lo possiamo permettere ma ci capita di sentire il bisogno di ritagliarci del tempo per noi stessi.
Queste condizioni obbiettive sembrerebbero la premessa per un periodo triste e negativo. Ma il limite può diventare una possibilità.
Quando la natura ci priva del superfluo, delle cose in più che solitamente abbiamo, ci ricordiamo di cosa è davvero importante per noi. Troviamo il tempo per mangiare qualcosa insieme alle persone che più ci sono care; condividiamo le cose belle che ci capitano con chi davvero ci sta a cuore, gustiamo di più i momenti che condividiamo. Quando fuori fa freddo, è naturale andare dalle persone a cui più teniamo per condividere con loro un po' di calore umano, che solo le relazioni vissute a pieno possono dare. L’inverno dunque ci toglie alcune cose.
Ma chi l’ha detto che sia una cosa negativa? Quando infatti perdiamo o scegliamo di fare a meno delle cose superficiali della nostra vita allora abbiamo l’occasione di chiederci: chi e che cosa conta davvero per me? Se sappiamo accogliere questa provocazione come un dono, allora potremo gustare un po' più a fondo la bellezza dell’inverno. Perché ogni limite ha sempre in sé una grande possibilità.
Articolo di ©Marco Facoetti - 10 gennaio 2020
Editing della foto Chiara Resenterra