SmaniaMusings by Vale
Le storie e riflessioni di una professoressa atipica
rubrica a cura di Valentina Finocchiaro
𝐏𝐄𝐑𝐂𝐎𝐑𝐒𝐈 𝐃𝐈 𝐃𝐎𝐍𝐍𝐄
𝐿’𝑜𝑐𝑐𝑎𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑖𝑛𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑛𝑢𝑜𝑣𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑐ℎ𝑖 ℎ𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑣𝑖𝑠𝑜 𝑢𝑛𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑛𝑜𝑖.
𝑄𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑙𝑒 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑒 𝑠𝑖 𝑖𝑛𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑜 𝑒 𝑓𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑠𝑞𝑢𝑎𝑑𝑟𝑎, 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑜𝑝𝑜 15 𝑎𝑛𝑛𝑖.
𝐸𝑟𝑎𝑣𝑎𝑚𝑜 𝑖𝑛 30 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 5^ 𝐸 𝑑𝑒𝑙 𝑙𝑖𝑐𝑒𝑜 𝑙𝑖𝑛𝑔𝑢𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐𝑜 𝐹𝑎𝑙𝑐𝑜𝑛𝑒, 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑒 2005/2006.
Esame di idoneità: prova di italiano.
Mentre i ragazzi scrivono concentrati, ho l’occasione di ripensare alla scuola e a un incontro con le mie
ex-compagne, di qualche giorno fa.
Trenta ragazze: mai un uomo ha varcato stabilmente i confini del gruppo e ripensandoci a posteriori, un po’ come una “tenda rossa” scolastica, durata 5 anni.
In una classe di 30 donne ci si aspetterebbero rivalità, ripicche o competizione.
Sicuramente non eravamo sempre in accordo su tutto ma guardando indietro vedo in generale una classe molto unita, come non ne vedo più oggi (e qui ci sarebbe da aprire un capitolo a parte, di relazioni piuttosto superficiali a cui la DAD ha dato il colpo di grazia).
Certo, c’erano gruppi e amicizie più strette – che per inciso si vedono ancora oggi a fine serata, quando si va via insieme- ma abbiamo sempre convissuto piuttosto bene.
Abbiamo condiviso 6 ore tutti i giorni per 5 anni, non proprio poco tempo.
Alcuni momenti poi, li definirei “epici” come lo scambio a Ludwigshafen, paesino sperduto della Germania e le serate alla Blockhaus; la gita di quinta a Barcellona con i tentativi di scappare dalle finestre per uscire la sera, le confessioni intorno al tavolo e le serate di tango; la gita a Francoforte durante le vacanze di Natale, tra psicodrammi amorosi e nuovi amici in ostello.
Anche i professori, come in ogni classe che si rispetti, erano oggetto di commenti, critiche e talvolta anche di apprezzamenti – sicuramente da docente ora capisco tante cose, in particolare lo sclero di fine anno-.
Alcuni sono stati punto di riferimento e modello da seguire e quasi tutti ci hanno dato molto altro, oltre a semplici insegnamenti scolastici.
Da parte nostra, condividevamo anche tanti momenti di vita fuori da scuola, a volte coinvolgendo sorelle e amiche; le serate a dir poco “infuocate” quando andava di moda il B52, le nottate passate a vedere film horror, lo studio matto e disperatissimo per le verifiche di chimica alle 6, gli interminabili tragitti in pullman con la nebbia e nel buio del mattino.
Eravamo però anche ironiche e questo forse ci ha unito ancora di più: scrivevamo le frasi degne di nota su fogli appesi ai muri e ridevamo con imitazioni e scherzi ai prof. per la verità, a pensarci ora, di una banalità spaventosa.
Ci raccontavamo spesso di noi: degli amici, dei morosi e morose, di genitori e di progetti per il futuro.
Eravamo brave ragazze e ci facevamo davvero “il mazzo”, certo chi più chi meno ma tutte insieme.
Ci siamo riviste un sabato sera, 15 anni dopo la maturità e dopo due anni di pandemia, intorno al tavolo di un bar in un parco di quartiere, un posto non particolarmente alla moda ma decisamente accogliente, con le cameriere che guardano storto il primo giro di bibite analcoliche.
L’atmosfera della classe si ricrea in poco tempo.
Come dietro i banchi di scuola ci siamo aperte, confrontate, raccontate e ritrovate: ancora una volta “quelle della 5^ E”.
Quelle che invece di indirizzi e numeri di telefono sull’annuario, hanno riassunto cinque anni di vita con una foto della gita di quinta e una frase di “Redemption song” di Bob Marley.
Emancipate yourselves from mental slavery
None but ourselves can free our minds
Siamo ancora quelle ragazze, che dai discorsi banali e i “giri di tavolo”, passano alle riflessioni personali, anche su argomenti non facili, come la parità di genere e la violenza sulle donne.
C’è chi ha raggiunto un ruolo rilevante sul lavoro, chi ha figli e chi no, chi ha progetti importanti da portare a termine e sogni nel cassetto, chi vive all’estero e si collega nel corso della serata con una videochiamata, chi non è potuto venire e invia un messaggio, promettendo di esserci “alla prossima”.
Le riconosco: vedo i modi di fare e di parlare, gli atteggiamenti e le movenze, i silenzi e le pause- e come potrebbe essere altrimenti, dopo tutto il tempo passato insieme?- ma al contempo vedo il cambiamento dipinto sul loro viso e nei loro occhi.
Non quello del tempo e delle rughe ma quello della vita che va avanti, della ricerca, dei progetti, del miglioramento nel lavoro, dell’amore per mariti, compagni, figli, nipoti e perfino cani.
Abbiamo avuto vite piene, magari non quelle che definiremmo straordinarie, da leggere in un libro o vedere in un film ma quelle che vivono di piccole felicità e si nutrono di passioni.
Perché a differenza di quello che pensi quando sei a scuola e vivi una quotidianità fatta di stress da valutazioni, voti e giudizi, la prova della vita non prevede interrogazioni programmate e non ti dà il tempo di studiare.
Sei tu, punto.
A volte puoi fare qualcosa, mettere in campo risorse, chiedere aiuto, condividere; a volte non puoi agire.
Spesso, e per fortuna, puoi imparare dagli errori e far valere l’esperienza sul campo, altre l’unica cosa che puoi fare è imparare ad accettare.
Un grande dono della vita è, a mio avviso, poter condividere.
E’ anche bello ritrovarsi per dirlo a quelle ragazzine con troppi compiti e materie da studiare, quasi tutte delle frane in matematica ma appassionate di lingue e letteratura: ce la farete!
Il tempo passerà, voi sarete diverse ma voi vi ritroverete.
Spero di vedervi presto, ragazze e di leggere nei vostri occhi illuminati ancora una volta dalla luce al neon di un parco qualsiasi, il cambiamento che ognuna di voi sta cercando.
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foto e articolo di ©Valentina Finocchiaro - 8 luglio 2021
𝐔𝐍𝐀 𝐏𝐈𝐙𝐙𝐀 𝐈𝐍 𝐂𝐎𝐌𝐏𝐀𝐆𝐍𝐈𝐀,
𝐔𝐍𝐀 𝐏𝐈𝐙𝐙𝐀 𝐃𝐀 𝐒𝐎𝐋𝐎?
𝐄𝐥𝐢𝐨 𝐞 𝐥𝐞 𝐒𝐭𝐨𝐫𝐢𝐞 𝐓𝐞𝐬𝐞_* 𝐞 𝐥𝐚 𝐥𝐨𝐫𝐨 𝐜𝐚𝐧𝐳𝐨𝐧𝐞 “𝐋𝐚 𝐓𝐞𝐫𝐫𝐚 𝐝𝐞𝐢 𝐜𝐚𝐜𝐡𝐢”.
𝑄𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑒̀ 𝑙𝑎 𝑓𝑟𝑎𝑠𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑚𝑖 𝑟𝑜𝑛𝑧𝑎 𝑖𝑛 𝑡𝑒𝑠𝑡𝑎, 𝑑𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 ℎ𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑖𝑛𝑐𝑖𝑎𝑡𝑜 𝑎 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑟𝑒 𝑎 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑎𝑟𝑡𝑖𝑐𝑜𝑙𝑜.
𝐶𝑟𝑒𝑑𝑜 𝑑𝑎𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑖𝑎 𝑒𝑚𝑏𝑙𝑒𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎.
𝑆𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑚𝑒, 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑟𝑒𝑠𝑒𝑛𝑡𝑎 𝑖𝑛 𝑝𝑖𝑒𝑛𝑜 𝑙’𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑎𝑟𝑖𝑜 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑡𝑜 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑖𝑧𝑧𝑎: 𝑐𝑖𝑏𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑒𝑐𝑐𝑒𝑙𝑙𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑒 𝑖𝑛 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑎𝑔𝑛𝑖𝑎 𝑒 𝑟𝑎𝑓𝑓𝑖𝑛𝑎𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑠𝑖𝑛𝑔𝑙𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑎𝑙𝑙𝑖𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑐𝑢𝑐𝑖𝑛𝑎.
𝑃𝑖𝑒𝑡𝑎𝑛𝑧𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑎𝑛𝑡𝑜𝑛𝑜𝑚𝑎𝑠𝑖𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑜𝑐𝑐𝑜𝑙𝑎 𝑠𝑎𝑙𝑎𝑡𝑎.
𝑃𝑒𝑟𝑠𝑖𝑛𝑜 𝑎𝑙 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑗𝑢𝑛𝑘 𝑓𝑜𝑜𝑑 𝑝𝑒𝑟 𝑎𝑙𝑐𝑢𝑛𝑖 𝑒 𝑐𝑖𝑏𝑜 𝑠𝑎𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑖.
Equiparata dai nutrizionisti più infidi a una confezione di 500 grammi di ravioli: un chilo assicurato in più sulla bilancia il giorno dopo.
Di tutte le forme, ogni tipo e svariati generi; oggi impastata con tutte le farine.
Per tutti i gusti: alta, bassa, morbida e croccante, tonda e quadrata...persino con il cornicione ripieno.
Finanche la pizza light e quella senza glutine.
La pizza al ristorante, fatta in casa, quella d’asporto e surgelata (orrore!!).
Esistono pizze con i volti dei personaggi famosi, ricerche per la pizza più costosa, premi per la migliore pizzeria, e la pizza Guinnes World Record, lunga un miglio.
Il primato per la pizza impastata più velocemente.
C’è pure l’effetto pizza.
Un tempo c’era la pizza e birra in compagnia del sabato sera, ora il sabato c’è, la pizza pure ma la birra per qualcuno è diventata inspiegabilmente champagne… mah.
Un teorema calcola perfettamente il taglio della pizza, per non fare torto a nessuno e qualcuno sta tentando si stamparla in 3D.
Sì, avete letto bene.
C’è persino il Mopi, museo della pizza a New York, che si propone di sfruttare l’immagine di questo cibo per la sua “connotazione universale”.
Probabilmente ogni persona nel mondo ha mangiato una pizza almeno una volta in vita sua.
Ma la pizza è davvero un cibo, un’immagine, verrebbe da dire quasi un archetipo, così universale?
Pensare che sicuramente una buona fetta di umanità non abbia mai ingurgitato in vita sua una fetta di pizza, suona davvero strano.
Impossibile poi, che anche non avendola provata, ci sia una sola persona al mondo che non abbia mai sentito parlare della pizza.
Oppure così non è?
Perlomeno, così siamo abituati a ragionare, nel nostro generalmente occidentale e molto eurocentrico modo di pensare.
“L’Arte tradizionale del pizzaiuolo napoletano” è stata riconosciuta come parte del patrimonio culturale dell’umanità, trasmesso di generazione in generazione e continuamente ricreato, in grado di fornire alla comunità un senso di identità e continuità e di promuovere il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana.” - Patrimonio Immateriale dell’Unesco
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foto e articolo di ©Valentina Finocchiaro - 10 giugno 2021
𝐈𝐍𝐂𝐋𝐔𝐃𝐄𝐑𝐄 𝐂𝐇𝐈?
𝑆𝑖 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑠𝑝𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑖𝑛𝑐𝑙𝑢𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒.
𝑈𝑛𝑎 𝑛𝑜𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑏𝑒𝑛 𝑝𝑟𝑒𝑐𝑖𝑠𝑎 𝑖𝑛 𝑚𝑎𝑡𝑒𝑚𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎: “𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑓𝑟𝑎 𝑑𝑢𝑒 𝑖𝑛𝑠𝑖𝑒𝑚𝑖; 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑖𝑛𝑠𝑖𝑒𝑚𝑒 𝑓𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙'𝑎𝑙𝑡𝑟𝑜”
𝑈𝑛 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 ℎ𝑎 𝑝𝑜𝑐𝑜 𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑢𝑚𝑎𝑛𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑠𝑖𝑚𝑝𝑎𝑡𝑖𝑎 𝑜 𝑙𝑎 𝑔𝑒𝑛𝑡𝑖𝑙𝑒𝑧𝑧𝑎, 𝑙𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑝𝑜𝑛𝑖𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎̀, 𝑙’𝑎𝑝𝑒𝑟𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑜 𝑙’𝑒𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑖𝑡𝑎̀ 𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑙𝑒. 𝑈𝑛 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑖𝑒𝑟𝑜 𝑐ℎ𝑒, 𝑎 𝑚𝑖𝑜 𝑝𝑎𝑟𝑒𝑟𝑒 ℎ𝑎 𝑚𝑜𝑙𝑡𝑜 𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑒𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑜𝑠𝑐𝑒𝑛𝑧𝑎.
Sono cresciuta in una famiglia di alti, biondi, occhi chiari, mediamente sani, simpatici e intelligenti, acculturati, laureati, benestanti, accoglienti.
Per carità, una famiglia “del Mulino bianco” ma con i suoi difetti, che ha superato e attraversa ancora le sue mille difficoltà, cercando di non farle pesare troppo ai membri vicendevolmente più fragili.
Ci sono stati momenti davvero duri ma sembra che nella quotidianità questi siano dimenticati e messi da parte in favore di un pensiero dominante, tipico di chi si considera in genere normale o normodotato.
E’ stato faticoso entrare nell’ottica che c’è ALTRO.
Ci sono vite differenti, difficoltà enormi e quotidiane, disagi fisici e psicologici, sofferenze estreme di chi fatica ad alzarsi la mattina: letteralmente.
Persone che al tempo stesso ti sorridono, ti chiedono “Come stai?”, persone che ascoltano i tuoi piccoli disagi quotidiani e che potrebbero facilmente farti sentire molto stupido, perché ti lamenti del traffico o del mal di schiena.
In questi anni di lavoro, che per me è sempre fatto più di cose da imparare che da insegnare, ho avuto modo di domandarmi: quanto siamo davvero inclusivi?
Come comunità, inseriti nelle nostre relazioni sociali e in quanto individui.
Alcune esperienze del mio percorso scolastico della maturità mi hanno colpito particolarmente.
Tutte quelle che implicavano lo sforzo emotivo di mettermi nei panni degli altri.
Rallentare il passo con chi ha difficoltà a camminare, rallentare i pensieri con chi ha difficoltà a capire, cercare a fondo la sensibilità per accompagnare senza offendere.
L’esempio è stato determinante: i gesti e le parole di chi ha sperimentato e ti mostra una via per pensare diversamente, per agire in modo differente.
La strada, però, è davvero ancora molto lunga.
Alcune letture mi hanno aiutato.
In particolare, la storia di Daniele Cassioli, atleta paraolimpico e cieco dalla nascita.
Il suo romanzo “Il vento contro” mi ha fatto riflettere in un passaggio sulle cose di cui abbiamo davvero bisogno e su quelle di cui pensiamo abbia bisogno chi riteniamo sia meno fortunato di noi.
Potremmo davvero sbagliarci a riguardo.
“Una cosa che mi aveva davvero colpito, dei racconti di Fabri, ha a che fare con la socialità, a come cambia la vita di chi è in carrozzina, non solo perché non può camminare.
<Sai qual è una delle cose che più mi mancano da quando ho fatto l’incidente?
mi ha detto un giorno.
<Camminare?
ho risposto io facendo lo stupido. <Grande, Dani, sei un genio! No, mi mancano un sacco gli abbracci degli amici. Quando ero in piedi era normale abbracciarsi e darsi la classica pacca sulla spalla per salutarci. Ora nessuno lo fa più. Forse perché mi vedono fragile su questa carriola, non so. E poi è un casino abbracciare uno seduto! Te la cavi molto prima con una stretta di mano o con un cinque>"
Magari ci manca un po’ di raffinatezza nel chiederci come sono davvero gli altri, di cosa hanno bisogno; che abbiano realmente più difficoltà di noi o meno.
Smettere di pensare da alti, biondi e occhi chiari è davvero difficile ma ogni tanto indossare gli occhiali dell’umanità aiuta.
foto e articolo di ©Valentina Finocchiaro - 28 maggio 2021
𝐂𝐎𝐍 𝐈𝐍𝐍𝐎𝐂𝐄𝐍𝐙𝐀 𝐄 𝐏𝐔𝐑𝐄𝐙𝐙𝐀 𝐈𝐎 𝐂𝐔𝐒𝐓𝐎𝐃𝐈𝐑𝐎’ 𝐋𝐀 𝐌𝐈𝐀 𝐕𝐈𝐓𝐀 𝐄 𝐋𝐀 𝐌𝐈𝐀 𝐀𝐑𝐓𝐄
𝑁𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑚𝑎𝑖 𝑓𝑎𝑐𝑖𝑙𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑙𝑎𝑡𝑡𝑖𝑎.
𝑃𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜 𝑖𝑛 𝑞𝑢𝑒𝑖 𝑚𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑖𝑛 𝑐𝑢𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑓𝑎𝑐𝑖𝑙𝑒, 𝑖𝑛𝑣𝑒𝑐𝑒, 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑜 𝑐𝑖 𝑠𝑖𝑎 𝑢𝑛 𝑔𝑟𝑎𝑛 𝑏𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑑𝑖𝑣𝑖𝑑𝑒𝑟𝑒, 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑟𝑑𝑎𝑟𝑒.
𝐷𝑎𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑢𝑝𝑝𝑜𝑠𝑡𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑐𝑖𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑐𝑎 𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑎𝑡𝑖𝑣𝑒 𝑑𝑖 𝑠𝑢𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑎, 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒, 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑒.
𝑃𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑙𝑎 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎, 𝑎𝑛𝑐ℎ’𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑝𝑢𝑜̀ 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑐𝑖𝑛𝑎.
.
"𝐺𝑖𝑢𝑟𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝐴𝑝𝑜𝑙𝑙𝑜 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑐𝑜 𝑒 𝐴𝑠𝑐𝑙𝑒𝑝𝑖𝑜 𝑒 𝐼𝑔𝑒𝑎 𝑒 𝑃𝑎𝑛𝑎𝑐𝑒𝑎 𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑔𝑙𝑖 𝑑𝑒̀𝑖 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑒 𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑒, 𝑐ℎ𝑖𝑎𝑚𝑎𝑛𝑑𝑜𝑙𝑖 𝑎 𝑡𝑒𝑠𝑡𝑖𝑚𝑜𝑛𝑖, 𝑐ℎ𝑒 𝑒𝑠𝑒𝑔𝑢𝑖𝑟𝑜̀, 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑙𝑒 𝑓𝑜𝑟𝑧𝑒 𝑒 𝑖𝑙 𝑚𝑖𝑜 𝑔𝑖𝑢𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜, 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑔𝑖𝑢𝑟𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑖𝑚𝑝𝑒𝑔𝑛𝑜 𝑠𝑐𝑟𝑖𝑡𝑡𝑜: 𝑑𝑖 𝑠𝑡𝑖𝑚𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑚𝑖𝑜 𝑚𝑎𝑒𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑚𝑖𝑜 𝑝𝑎𝑑𝑟𝑒 𝑒 𝑑𝑖 𝑣𝑖𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑖𝑛𝑠𝑖𝑒𝑚𝑒 𝑎 𝑙𝑢𝑖 𝑒 𝑑𝑖 𝑠𝑜𝑐𝑐𝑜𝑟𝑟𝑒𝑟𝑙𝑜 𝑠𝑒 ℎ𝑎 𝑏𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑜 𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑒𝑟𝑜̀ 𝑖 𝑠𝑢𝑜𝑖 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑓𝑟𝑎𝑡𝑒𝑙𝑙𝑖 𝑒 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑔𝑛𝑒𝑟𝑜̀ 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡'𝑎𝑟𝑡𝑒, 𝑠𝑒 𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑑𝑒𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑎𝑛𝑜 𝑎𝑝𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑒𝑟𝑙𝑎; 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒𝑐𝑖𝑝𝑖 𝑑𝑒𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑐𝑒𝑡𝑡𝑖 𝑒 𝑑𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑔𝑛𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑜𝑟𝑎𝑙𝑖 𝑒 𝑑𝑖 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑎 𝑑𝑜𝑡𝑡𝑟𝑖𝑛𝑎 𝑖 𝑚𝑖𝑒𝑖 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖 𝑒 𝑖 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑖𝑜 𝑚𝑎𝑒𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑒 𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑙𝑙𝑖𝑒𝑣𝑖 𝑙𝑒𝑔𝑎𝑡𝑖 𝑑𝑎 𝑢𝑛 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑒 𝑣𝑖𝑛𝑐𝑜𝑙𝑎𝑡𝑖 𝑑𝑎𝑙 𝑔𝑖𝑢𝑟𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑐𝑜, 𝑚𝑎 𝑛𝑒𝑠𝑠𝑢𝑛 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑜.[…]".
𝐴𝑛𝑎𝑐𝑟𝑜𝑛𝑖𝑠𝑡𝑖𝑐𝑜?
Questo brano è parte dell’antico testo del Giuramento di Ippocrate, considerato il Padre della medicina, per aver separato la materia dalla filosofia e dalla pratica religiosa teurgica e reso i suoi presupposti più simili a quanto potremmo attualmente definire “scientifico”.
Quando pensiamo ai medici, e oggi ci capita per la verità molto spesso, non consideriamo quasi mai il loro percorso di studi precedente alla professione.
Ci assicuriamo, purtroppo spesso con Internet alla mano, che abbiano sviluppato le competenze necessarie e che, insieme a queste, abbiano anche raccolto l’esperienza utile a rassicurarci e farci sentire al sicuro.
Quale gioia è stata sentir recitare questo giuramento qualche anno fa alla laurea della mia cuginetta, che poi tanto “etta”non era più!
Un’emozione unica, che non scorderò facilmente.
Una solennità, una comunione di intenti e una presa in carico di serietà e responsabilità, che solo un momento cruciale, come quello della laurea possono trasmettere.
Questo ricordo mi fa pensare a quanti giovani nel corso di questo lungo anno abbiano dovuto fare i conti istantaneamente post-laurea con una realtà spaventosa, con l’emergenza e, appena il tempo di finire gli studi siano stati lanciati, coraggio alla mano, nella mischia per salvare le vite messe a grave rischio dal Covid.
Inoltre, mi fa venire in mente un libro, “Medicus” di Noah Gordon, un romanzo sulla formazione di un medico, quando la professione era in epoca medievale e in Europa ancora chiamata “cerusico” e si espletava in modo quasi marginale e su un carro itinerante, tra spettacoli di giocoleria e discorsi declamati a gran voce per attirare il pubblico.
L’autore segue il giovane protagonista Robert nel suo percorso formativo di professione e di vita, in cui arriva a studiare l’arte medica e si trova a contatto in prima persona con un’epidemia di peste, buttato anche lui nella mischia proprio come i nostri giovani medici oggi.
Grazie agli studi, alla ricerca, ai giovani la medicina va avanti; si fanno progressi, si migliora la condizione dei pazienti che affrontano e sopportano la malattia e con grande forza oggi, per fortuna in molti più casi, la sconfiggono.
Ad esempio, tantissime sono le iniziative in tutta Italia grazie alle quali donne che ancora combattono o che hanno sconfitto il cancro al seno -malattia tipicamente femminile ma non solo – corrono per dimostrare agli altri pazienti la propria solidarietà.
Ogni anno infatti, a partire dall’appello della Fondazione Veronesi, in tutto il Paese vengono creati “Running Team”, nell’ambito del progetto #NOTHINGstopsPINK , che ha l’intento primario di incentivare la pratica dello sport a tutte le età, per prevenire non solo i tumori ma anche eventuali recidive.
L’anno scorso, nonostante la pandemia, alcune di queste gare si sono svolte lo stesso in “modalità social”, per far comprendere che tutti viviamo una situazione di disagio e di paura, ma c’è chi la vive ogni giorno e a volte per molti anni e in questo momento potrebbe sentirsi ancora più solo e abbandonato e ha ancora più bisogno di vicinanza e sostegno, seppur virtuale.
Tante donne hanno scritto dei libri per condividere le loro storie, e alcune di esse sono rimaste nel cuore del grande pubblico, come la giovane presentatrice de “Le Iene” Nadia Toffa.
Il suo messaggio è stato non solo di speranza e di sostegno ma anche di grande libertà di parola:
“Rivendico il diritto di parlare apertamente della nostra malattia, che non è esibizionismo né un credersi invincibili, anzi: è un diritto a sentirsi umani.
Anche fragili, ma forti nel reagire.”
Questa ragazza non solo ha lottato e condiviso la sua storia attraverso i Social e i suoi libri ma oggi la sua opera va avanti grazie alla Fondazione che porta il suo nome.
Questa introduzione potrebbe sembrare fuori luogo per quello di cui sto per scrivere ma un ricordo felice e progetti di speranza e sostegno sono quello che ci vuole, per parlare di ciò che non si può nominare.
Non per me, non per tante persone, non in tante famiglie.
Ricordare chi non c’è più è difficile, faticoso, straziante.
Chiedere diventa impossibile.
E allora bisogna sentirsi un po’ Dante e trovare il coraggio per parlare dell’INDICIBILE.
E’ quasi “facile” parlare di famigliari con i quali abbiamo condiviso un percorso di vita e tanti bellissimi ricordi e che poi abbiamo perso proprio per un cancro, in confronto anche al solo tentativo di chiedere, rispetto a persone che hai visto in foto ma di cui purtroppo non ti ricordi.
Quest’anno ricorre un anniversario molto doloroso per la mia famiglia, che trent’anni fa ha perso una delle sue donne.
Una giovane mamma che non ha potuto crescere le sue figlie, che ha avuto davvero troppo poco tempo per partecipare alla nostra tenda rossa.
A volte mi chiedo come sarebbe se fosse con noi oggi; se avrebbe avuto a disposizione migliori cure, se sarebbe stata una di queste donne che corrono o che scrivono per sostenere le altre, se avrebbe trovato in noi, bambine ormai cresciute, una forza in più per combattere.
Vorrei dirle quanto è bella in quelle foto, quanta tenerezza quel sorriso accennato ma non posso.
Spero un giorno di trovare il coraggio e la forza per parlare e accompagnare chi le era più vicina a condividere quei ricordi per non perderli, per tramandarli a chi magari un domani incontrerà qualcuno che porterà il suo bellissimo nome.
Voglio concludere con le ultime parole del giuramento di Ippocrate, che siano da monito e da sprone non solo per chi ha fatto della medicina e della ricerca parte della sua vita, ma anche per tutti noi, per non sottovalutare mai quello che facciamo per gli altri, quel poco o tanto è sempre di vitale importanza.
Se non possiamo fare più niente, possiamo sempre, con affetto, ricordare.
Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte.
[…]
foto e articolo di ©Valentina Finocchiaro - 15 aprile 2021
“𝐈𝐍 𝐐𝐔𝐄𝐒𝐓𝐀 𝐂𝐀𝐒𝐀 𝐄' 𝐏𝐈𝐔' 𝐅𝐀𝐂𝐈𝐋𝐄 𝐓𝐑𝐎𝐕𝐀𝐑𝐄 𝐔𝐍𝐀 𝐃𝐎𝐍𝐍𝐀 𝐍𝐔𝐃𝐀, 𝐂𝐇𝐄 𝐔𝐍𝐀 𝐏𝐄𝐍𝐍𝐀!”
𝐼𝑙 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑚𝑎𝑑𝑟𝑒-𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖𝑎 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑟𝑖𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑜𝑙𝑙𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖𝑡𝑎̀: 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑓𝑎𝑚𝑖𝑔𝑙𝑖𝑎.
𝐿𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖𝑡𝑎̀ 𝑓𝑒𝑚𝑚𝑖𝑛𝑖𝑙𝑖 𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑜𝑛𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑆𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎, 𝑓𝑖𝑛 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑟𝑒𝑚𝑜𝑡𝑎 𝑡𝑟𝑎𝑑𝑖𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑚𝑖𝑡𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑐𝑜-𝑟𝑒𝑙𝑖𝑔𝑖𝑜𝑠𝑎.
𝑆𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑜𝑛𝑜 𝑖𝑛 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑖𝑏𝑢𝑡𝑜 𝑙𝑒 𝑚𝑜𝑠𝑠𝑒- 𝑒 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑙𝑒 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑎𝑛𝑧𝑒 -𝑑𝑎𝑙 𝑚𝑖𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑃𝑎𝑛𝑑𝑜𝑟𝑎 𝑒 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑟𝑖𝑚𝑖𝑛𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑒, 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑜𝑐𝑖𝑒𝑡𝑎̀ 𝑝𝑎𝑡𝑟𝑖𝑎𝑟𝑐𝑎𝑙𝑒, 𝑝𝑒𝑟 𝑎𝑛𝑎𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑛 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑟𝑒𝑡𝑜 𝑙’𝑒𝑣𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑡𝑡𝑢𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑡𝑟𝑎 𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑒.
𝑸𝒖𝒂𝒏𝒕𝒐 𝒍𝒆 𝒅𝒐𝒏𝒏𝒆 𝒑𝒐𝒔𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒊𝒎𝒑𝒂𝒓𝒂𝒓𝒆, 𝒔𝒕𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒂 𝒔𝒕𝒓𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒄𝒐𝒏𝒕𝒂𝒕𝒕𝒐 𝒄𝒐𝒏 𝒍𝒆 𝒑𝒓𝒐𝒑𝒓𝒊𝒆 𝒑𝒓𝒐𝒈𝒆𝒏𝒊𝒕𝒓𝒊𝒄𝒊 𝒆 𝒒𝒖𝒂𝒏𝒕𝒐 𝒒𝒖𝒆𝒔𝒕𝒂 𝒓𝒆𝒍𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒂𝒍 𝒇𝒆𝒎𝒎𝒊𝒏𝒊𝒍𝒆 𝒑𝒐𝒔𝒔𝒂 𝒆𝒅𝒖𝒄𝒂𝒓𝒆 𝒍𝒆 𝒈𝒆𝒏𝒆𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒊 𝒇𝒖𝒕𝒖𝒓𝒆.
𝑆𝑡𝑎 𝑎𝑑 𝑜𝑔𝑛𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑖, 𝑠𝑎𝑝𝑒𝑟 𝑟𝑖𝑐𝑟𝑒𝑎𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑎 𝑡𝑒𝑛𝑑𝑎 𝑟𝑜𝑠𝑠𝑎 𝑒 𝑝𝑒𝑟𝑚𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑑𝑜𝑛𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑒𝑟𝑟𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑓𝑢𝑡𝑢𝑟𝑜 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑓𝑜𝑟𝑧𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑡𝑜 𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑟𝑖𝑛𝑛𝑜𝑣𝑎𝑡𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑟𝑎𝑛𝑧𝑎.
Dedicato a mia nipote Lara,
lei non lo sa ancora ma fa già parte della nuova tenda rossa.
Il mio rapporto con mia madre non è sempre stato esclusivo.
Non perché non ci siamo impegnate abbastanza, ma per il semplice fatto che nella mia famiglia d’origine materna la componente femminile, almeno in un determinato contesto era decisamente predominante.
Ma andiamo con ordine.
E’ assodato ormai, da numerosi studi sulle civiltà preistoriche, che la specie umana nella sua prima evoluzione fosse impostata sul predominio delle donne: il matriarcato.
Questo è, senza dubbio, in contraddizione con quanto tramandato dalla tradizione mitologico-letteraria delle origini, laddove il Gilgamesh sumerico impone la sua forza e potenza di re degli uomini e, se va bene, le figure femminili compaiono come divinità, frivole e intestardite sulla necessità dell’eroe di rinunciare alle imprese prodigiose che ha in mente, per trasferirsi con loro non si sa dove, a vivere godendo della reciproca compagnia.
La società che ha prodotto questo tipo di miti e di storie è quella occidentale e patriarcale, progenitrice di quella società ancora, secondo me, troppo occidentale e patriarcale, della quale facciamo parte anche noi oggi.
In particolare, quando vogliamo riferirci in modo positivo al passato, ricordando di quali importanti innovazioni e progressi di pensiero si sia resa protagonista l’umanità, solitamente facciamo riferimento alla Grecia classica.
Qui troviamo concetti e modelli di sviluppo culturale, sociale e politico fondanti della civiltà occidentale a cui siamo 𝑎𝑏𝑖𝑡𝑢𝑎𝑡𝑖 𝑎 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑟𝑒.
Basta infatti, per citare un esempio opposto, e confrontarsi con l’idea che lo storico Alessandro Barbero ha maturato dell’Occidente ai tempi dell’impero romano.
Secondo Barbero, QUELL’OCCIDENTE al contrario della visione che ci siamo fatti studiando sui testi scolastici del grande impero universale, in quella particolare situazione storica, era molto più arretrato rispetto all’Oriente dell’epoca.
Tornando alla Grecia classica, e soprattutto al modello ateniese, qui assistiamo alla nascita di concetti moderni come: la medicina, il teatro, la filosofia, la storiografia.
Come ci ricorda la studiosa Eva Cantarella nel suo saggio “Gli inganni di Pandora”* ai greci dobbiamo la diffusione di molti concetti positivi e idee innovative ma anche, purtroppo, l’origine di un pregiudizio negativo sulle donne e la conseguente discriminazione diffusasi in seguito nella società.
Il mito di Pandora ci racconta, infatti, di una donna letteralmente 𝑓𝑎𝑏𝑏𝑟𝑖𝑐𝑎𝑡𝑎 da Efesto per volere di Zeus e con il contributo di altre divinità, con il preciso proposito di punire l’umanità a causa di un grave torto, commesso dal titano Prometeo.
Da lei, come si può facilmente intuire, deriva secondo il mito tutta la stirpe femminile.
Pandora è ALTRA rispetto alla natura dell’uomo e si rende altresì colpevole di aver liberato, aprendo il vaso, TUTTI I MALI DEL MONDO.
Ne deriva da ciò, che l’essere femminile non trae da questa illustre progenitrice alcunché di positivo.
Questa caratteristica di alterità ha spinto la componente maschile in molte culture a relegare la donna in parti confinate e ben precise della casa, dei luoghi sacri, della società.
Così avveniva nella stessa civiltà Grecia, dove alle donne era riservato il gineceo- per altro, è necessario ricordare, cosa che spesso viene dimenticata, che anche agli uomini era riservata una zona specifica della dimora l’𝑎𝑛𝑑𝑟𝑜𝑛 – ma anche, per esempio, nella tradizione musulmana, laddove le donne del padrone di casa risiedevano nell’ℎ𝑎𝑟𝑒𝑚.
Questa separazione avveniva anche nei luoghi di culto, le moschee, dove alle donne era riservato il 𝑚𝑢𝑠𝑎𝑙𝑙𝑎, nulla di differente rispetto al matroneo delle chiese cristiane.
Al contesto religioso possiamo far risalire anche piccole comunità di divinità femminili, che non a caso hanno generalmente una connotazione negativa: le moire e le erinni greche, le parche romane e le norne dei vichinghi.
Alcune donne, però valorizzando questa componente di differenziazione rispetto all’uomo, decidevano per se stesse l’esclusione dalla società e il ricorso all’elemento maschile solo in fase riproduttiva: torniamo ancora al contesto greco, citando le Amazzoni.
Queste donne guerriere vivevano in comunità tutte al femminile, completamente separate rispetto agli uomini. E come dimenticare, quanto a donne guerriere le 𝑆𝑐ℎ𝑖𝑙𝑑-𝑚𝑎𝑖𝑑𝑒𝑛 norrene, tanto di moda oggi.
Questa idea di “donna-altra” rispetto all’uomo ovviamente non si discosta molto nemmeno dall’immagine che compare in alcuni testi sacri, quelli mitologico-religiosi citati in precedenza ma anche nella stessa tradizione cristiana.
Questa idea di donna biblica, la cui caratteristica principale è rivelarsi diversa rispetto all’uomo è, a mio avviso, magistralmente raccontata dall’autrice Anita Diamant nel suo romanzo “La tenda rossa”**
Nella prima parte di quest’opera troviamo raccontata la storia della componente femminile della famiglia di Giacobbe, nel momento unico e irripetibile che accomuna le sue donne ogni mese, ovvero quello del ciclo mestruale.
In quanto impure agli occhi degli uomini le donne si ritirano, quindi, nella tenda rossa.
Qui avvengono rituali, si raccontano storie e si condividono tradizioni estranee agli uomini, che solo le donne possono comprendere e tramandare alle generazioni future.
La casa di mia nonna materna è stata nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza un po’ come la mia tenda rossa.
L’appartamento, situato in un condominio a pochi passi dal mare, era abitato per la maggior parte dell’anno da una donna sola, mia nonna, che non aveva bisogno di tutto quello spazio per vivere e che manteneva con cura e affetto ma anche con grande fatica una casa per lei enorme.
Per alcuni periodi dell’anno, generalmente corrispondenti alle vacanze scolastiche, questa casa era abitata per lo più dalla componente femminile della famiglia: nonna, figlia, nipoti e cugine.
𝐋𝐚 𝐜𝐚𝐬𝐚 𝐯𝐢𝐯𝐞𝐯𝐚 𝐜𝐨𝐬𝐢̀ 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐬𝐞𝐧𝐭𝐢𝐫𝐞 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐨 𝐚𝐥 𝐟𝐞𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐥𝐞.
Nella pratica, questo era rappresentato dalla comune volontà di condividere esperienze, racconti di famiglia, ricette, modi di fare, tradizioni.
Momenti per le chiacchiere più frivole e momenti per le parole di conforto, per la condivisione della felicità e del dolore.
In qualche caso, la situazione era caratterizzata anche da un senso di libertà concreta, fatta della visione di corpi di diverse età e della nudità.
Questo non escludeva anche una parte decisamente emotiva, di condivisione attraverso una fisicità fatta di sguardi, sorrisi, abbracci e carezze.
Finanche gli animali coinvolti nella situazione, gatti e cani, erano femmine: con tutte le conseguenze del caso al momento del raggiungimento anche per loro della maturità.
Le incursioni maschili in questo moderno gineceo erano rappresentate dagli uomini, ovvero generalmente mio padre e i miei zii materni.
Ad uno dei due e alla libera nudità a cui ho accennato, si può fare riferimento per comprendere la frase per noi di famiglia divenuta storica, che dà il titolo a questo articolo.
E’ stata un’esperienza della mia vita a cui guardo sempre con molto affetto e a volte con una punta di rammarico.
Poi mi ricordo del sorriso di mia nonna, che ha unito le piccole e grandi donne in quella casa e che adesso non vedo più, se non in qualche breve riflesso nello specchio.
Non so se la vita mi concederà nuovamente di far parte così intensamente e profondamente di una femminilità condivisa ma mi fa ben sperare che la prima nata della nuova generazione sia una bambina, Lara.
Quello che so è che certamente farò tesoro di tutto quello che la mia personale tenda rossa mi ha lasciato e mi ha insegnato, in modo che il ricordo di quell’esperienza tutta al femminile mi permetta di tramandarne tutta la pienezza e l’affetto che ne ho ricevuto.
FONTI
* EVA CANTARELLA, Gli inganni di Pandora. L’origine delle discriminazioni nella Grecia antica, Feltrinelli, 2019.
**ANITA DIAMANT, La tenda rossa. L’avventura di Dinah che lotta per essere ricordata, Tropea Editore, 2001.
foto e articolo di ©Valentina Finocchiaro - 18 febbraio 2021
𝐋𝐄 𝐑𝐄𝐋𝐀𝐙𝐈𝐎𝐍𝐈 𝐏𝐀𝐑𝐋𝐀𝐍𝐎
“𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑐𝑢𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑙𝑒 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑐𝑜𝑛 𝑔𝑙𝑖 𝑠𝑡𝑢𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖?
𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑎𝑓𝑓𝑎𝑠𝑐𝑖𝑛𝑎𝑟𝑙𝑖, 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑔𝑢𝑖𝑑𝑎𝑟𝑙𝑖 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑠𝑢𝑟𝑟𝑜𝑔𝑎𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑎𝑚𝑖𝑐𝑖 𝑜 𝑝𝑎𝑙𝑙𝑖𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑑𝑖 𝑔𝑒𝑛𝑖𝑡𝑜𝑟𝑖?
𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑟𝑠𝑖 𝑑𝑖 𝑓𝑟𝑜𝑛𝑡𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑖𝑛𝑒𝑣𝑖𝑡𝑎𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑒𝑣𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒?
𝐸 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑖𝑙𝑖𝑎𝑟𝑙𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎?
𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑟𝑠𝑖 𝑑𝑖 𝑓𝑟𝑜𝑛𝑡𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑜𝑑𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑠𝑒𝑡𝑡𝑖𝑛𝑔 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 ℎ𝑎𝑖 𝑠𝑐𝑒𝑙𝑡𝑜 𝑚𝑎 ℎ𝑎𝑖 𝑠𝑢𝑏𝑖𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝐷𝐴𝐷?
𝐼𝑙 𝑟𝑎𝑐𝑐𝑜𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛’𝑒𝑠𝑝𝑒𝑟𝑖𝑒𝑛𝑧𝑎.
𝑄𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑢𝑛 𝑑𝑜𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑙𝑒 𝑑𝑜𝑚𝑎𝑛𝑑𝑒 𝑣𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑓𝑖𝑛𝑎𝑙𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑜𝑠𝑡𝑒.
𝑄𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑑𝑒𝑐𝑖𝑑𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑒̀ 𝑖𝑙 𝑚𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑟𝑜𝑣𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑛𝑠𝑖𝑒𝑚𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑟𝑖𝑠𝑝𝑜𝑠𝑡𝑒:
𝑑𝑖 𝒇𝒂𝒓 𝒑𝒂𝒓𝒍𝒂𝒓𝒆 𝒍𝒂 𝒓𝒆𝒍𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆.”
𝐋𝐞 𝐫𝐞𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐥𝐢𝐜𝐚𝐭𝐞.
Anche quelle semplici, anche quelle felici, anche quelle entusiasmanti.
Anche quelle che cominciano, dopo poco tempo finiscono per diventarlo.
Anche quelle che finiscono, e complicate magari lo erano già.
Certo, alcune relazioni vengono da se’ o sembrano più facili da portare avanti ma nascondono sempre l’insidia del cambiamento.
Vanno reimpostate continuamente e continuamente “salvate” come fossero un file in perenne aggiornamento. Un rotella colorata che gira vorticosamente, senza mai fermarsi.
Essendo i soggetti della relazione persone e, in quanto tali, votate al cambiamento – che vogliano accettarlo o meno – la relazione si modifica continuamente.
Ma forse il bello è proprio questo.
Che per portare avanti una relazione, che sia con se stessi o con gli altri, non basta partire con il piede giusto, servono riflessione e cura costanti.
𝐀𝐥𝐜𝐮𝐧𝐞 𝐬𝐢𝐭𝐮𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐢𝐧𝐜𝐢𝐝𝐨𝐧𝐨 𝐢𝐧 𝐦𝐨𝐝𝐨 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐢𝐝𝐞𝐫𝐞𝐯𝐨𝐥𝐞 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐞 𝐫𝐞𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢.
𝐔𝐧𝐚 𝐩𝐚𝐧𝐝𝐞𝐦𝐢𝐚 𝐦𝐨𝐧𝐝𝐢𝐚𝐥𝐞, 𝐚𝐝 𝐞𝐬𝐞𝐦𝐩𝐢𝐨, 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐢𝐧𝐜𝐢𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐦𝐨𝐥𝐭𝐨 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐫𝐞𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐭𝐫𝐚 𝐬𝐭𝐮𝐝𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐞 𝐢𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐧𝐭𝐞.
Una relazione già complicata di per se’, perché implica che un soggetto adulto (il docente) si relazioni al contempo con un soggetto individuale (lo studente, in questo caso adolescente) e collettivo (la classe).
Se poi ci mettiamo un anno scolastico, quello scorso che si è concluso con 3 mesi di DAD e questo, con poco più di un mese di presenza e uno di DAD, l’affaticamento nel portare avanti questa relazione si fa sentire, eccome.
Non è più solo lo sforzo degli impegni quotidiani, cui si aggiunge l’impegno personale ma gravoso e necessario di tenersi al sicuro a scuola, con mascherina constante e igienizzazione continua di mani e postazioni informatiche ma è un disagio.
Pochi giorni fa mi sono interrogata sulla mia stanchezza e soprattutto sulla sensazione scomoda di demotivazione.
Già, perché a volte anche noi docenti, impegnati nel creare lezioni coinvolgenti e appassionati nelle spiegazioni di argomenti che ci interessano, a volte perdiamo la motivazione.
𝐄’ 𝐮𝐧𝐚 𝐜𝐨𝐫𝐬𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐨 𝐢𝐥 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨.
Non solo devi capire come ritrovare l’entusiasmo, ma devi farlo prima che dall’altra parte (oggigiorno, purtroppo nella maggioranza dei casi, di uno schermo) se ne accorgano.
Certo, perché la giornata storta possiamo averla tutti, ma se il momento di demotivazione prosegue, il rischio è quello di perdere la presa su 28, 43, 53 differenti ragazzi.
Come fare?
uando le mie risorse personali calano, tendo a ricordarmi che 𝐥𝐚 𝐫𝐞𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐠𝐥𝐢 𝐬𝐭𝐮𝐝𝐞𝐧𝐭𝐢, 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐞 𝐥𝐞 𝐫𝐞𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐞̀ 𝐚 𝐝𝐨𝐩𝐩𝐢𝐨 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐨.
Non sono io che devo fare tutto il lavoro: non anche quando il “mio pezzo” non funziona più così bene.
Specialmente in seconda superiore, la classe in cui le relazioni si problematizzano, dopo l’intero anno della prima, in cui i ragazzi sono generalmente immaturi o nei casi fortunati autonomi e collaborativi, e la pausa estiva ha fatto il suo lavoro esperienziale, è il momento di fermarsi.
“𝐂𝐨𝐦𝐞 𝐬𝐭𝐚𝐭𝐞?”
E’ la domanda che ho rivolto loro.
Semplice no?
La formulo spesso quando entro in classe, ma per la maggior parte delle volte è più una domanda retorica, mio malgrado lo ammetto.
Le cause di questo sono in genere la fretta, il programma, i voti, le mille questioni non didattiche, il tempo che fugge.
Poi un’altra domanda:
“𝐴𝑐𝑐𝑒𝑛𝑑𝑒𝑡𝑒 𝑙𝑒 𝑡𝑒𝑙𝑒𝑐𝑎𝑚𝑒𝑟𝑒? 𝐻𝑜 𝑏𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑣𝑒𝑑𝑒𝑟𝑣𝑖, 𝑝𝑒𝑟 𝑝𝑎𝑟𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑖𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒.”
Subito si mostrano 9 ragazzi. No, non quelli che voglio raggiungere davvero, quelli che non parlano, che sfuggono e che saltano le interrogazioni.
Sono i volti di quelli bravi che però spesso, un po’ per il poco tempo a disposizione, un po’ per il timore del giudizio dei compagni, non hanno il coraggio di esprimere i propri pensieri.
Ancora un’altra richiesta:
"𝑆𝑖𝑎𝑡𝑒 𝑠𝑖𝑛𝑐𝑒𝑟𝑖, 𝑣𝑖 𝑝𝑟𝑒𝑔𝑜. 𝐴𝑙𝑡𝑟𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑠𝑐𝑜."
Mi rendo conto di aver bisogno soprattutto di chiarezza.
“𝑃𝑟𝑜𝑓𝑒,…
…𝑛𝑜𝑛 𝑎𝑏𝑏𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑠𝑜𝑐𝑖𝑎𝑙𝑒.
…𝑛𝑜𝑛 𝑣𝑒𝑑𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑎𝑔𝑛𝑖.
…𝑛𝑜𝑛 𝑎𝑏𝑏𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑚𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑠𝑣𝑎𝑔𝑜.
…𝑓𝑖𝑛𝑖𝑡𝑒 𝑙𝑒 𝑙𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑓𝑎𝑐𝑐𝑖𝑜 𝑑𝑎𝑛𝑧𝑎 𝑜𝑛𝑙𝑖𝑛𝑒.
..𝑢𝑠𝑐𝑖𝑣𝑜 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑎𝑔𝑛𝑎 𝑚𝑎 𝑎𝑏𝑖𝑡𝑎 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑒.
…𝑛𝑜𝑛 𝑒𝑠𝑐𝑜 𝑑𝑎 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑒𝑡𝑡𝑖𝑚𝑎𝑛𝑎.”
Qualcuno cerca di essere propositivo- apprezzo il tentativo anche se non sono proprio nel 𝑚𝑜𝑜𝑑- “𝑃𝑜𝑡𝑟𝑒𝑚𝑚𝑜 𝑣𝑒𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑣𝑖𝑑𝑒𝑜, 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑑𝑖𝑏𝑎𝑡𝑡𝑖𝑡𝑖 𝑜 𝑎𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖𝑡𝑎̀ 𝑎𝑙𝑡𝑒𝑟𝑛𝑎𝑡𝑖𝑣𝑒!”
Gli altri non rispondono. Io nemmeno. Stavolta voglio capire, davvero.
Poi suona la campanella.
Vado avanti ancora cinque minuti, ma tra altri cinque avrò un’altra lezione..mi rendo conto che ancora una volta il tempo sta fuggendo: devo andare.
“𝑃𝑟𝑜𝑓𝑒, 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑒 𝑙𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑢𝑛𝑎 𝑛𝑜𝑖𝑎 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑎𝑙𝑒.”
Bene, ora cominciamo a ragionare.
“𝐷𝑜𝑝𝑜 40 𝑚𝑖𝑛𝑢𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑒𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑛𝑜𝑛 𝑟𝑖𝑒𝑠𝑐𝑜 𝑎 𝑠𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑎𝑡𝑡𝑒𝑛𝑡𝑜. 𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑖𝑛 𝑐𝑎𝑚𝑒𝑟𝑎 𝑚𝑖𝑎, 𝑚𝑖 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑎𝑔𝑔𝑜.”
Potremmo fare una pausa, suggerisco.
"𝑆𝑖̀, 𝑠𝑖̀ 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑒𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒!”
“𝑃𝑟𝑜𝑓𝑒..”
“𝑆𝑐𝑢𝑠𝑎𝑡𝑒𝑚𝑖 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑖, 𝑚𝑎 𝑑𝑒𝑣𝑜 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜 𝑎𝑛𝑑𝑎𝑟𝑒.”
Il discorso, così come tante volte accade, è rimasto a metà.
𝐒𝐭𝐚𝐯𝐨𝐥𝐭𝐚 𝐩𝐞𝐫𝐨̀ 𝐧𝐨𝐧 𝐦𝐨𝐥𝐥𝐨.
Mi prenderò una lezione per parlare con loro.
Parlare aiuta, ma non ho ancora raggiunto i ragazzi trincerati nel silenzio.
Quelli mediamente giustificati dai genitori per i loro momenti di “sparizione”, le cui telecamere e microfoni smettono di funzionare nel momento stesso in cui pronunci il loro nome.
Quelli che in classe rispondevano “𝑃𝑟𝑜𝑓𝑒, 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑒𝑠𝑒𝑟𝑐𝑖𝑧𝑖𝑜 𝑛𝑜𝑛 𝑙’ℎ𝑜 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑛𝑜𝑛 𝑙’ℎ𝑜 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑜”.
PROPRIO QUESTO ESERCIZIO.
Sono gli alunni che ho più timore di perdere.
Stavolta però, metterò da parte le mie supposizioni, quelle che travesto a volte da certezza per necessità, metterò da parte l’empatia.
Anche se nell’intervista a Umberto Galimberti in occasione dell’evento “Dialoghi sull’anima dell’educazione” il filosofo ci dice: “𝐴𝑙𝑙𝑜𝑟𝑎, 𝑝𝑒𝑟 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑔𝑛𝑎𝑛𝑡𝑖 𝑏𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑎 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑒𝑚𝑝𝑎𝑡𝑖𝑐𝑖. 𝐿’𝑒𝑚𝑝𝑎𝑡𝑖𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑖 𝑖𝑚𝑝𝑎𝑟𝑎. […] 𝑙’𝑒𝑚𝑝𝑎𝑡𝑖𝑎 𝑜 𝑐𝑒 𝑙’ℎ𝑎𝑖 𝑜 𝑛𝑜𝑛 𝑐𝑒 𝑙’ℎ𝑎𝑖.”, tutto questo costa molta, molta fatica.
Una fatica che non può protrarsi per dieci mesi interi.
Anche se che è una qualità fondamentale dell’insegnante, stavolta la metterò da parte per far parlare loro, i ragazzi.
Per dare spazio e tempo agli individui, per agevolare confronto e condivisione.
Senza giudicare, senza intervenire.
Galimberti continua affermando: “𝐵𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑒𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒 𝑠𝑜𝑡𝑡𝑜𝑝𝑜𝑟𝑟𝑒 𝑔𝑙𝑖 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑔𝑛𝑎𝑛𝑡𝑖 𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑡𝑒𝑠𝑡 𝑑𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑙𝑖𝑡𝑎̀. 𝑆𝑎𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖𝑐𝑎𝑟𝑒? […] 𝐴𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑎𝑙𝑣𝑎𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎, 𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑛𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑢𝑛𝑎 𝑏𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎, 𝑢𝑛𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑎 𝑑𝑒𝑚𝑜𝑡𝑖𝑣𝑎𝑡𝑜 𝑣𝑎 𝑎 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑔𝑛𝑎𝑟𝑒.”
Rivaluterò anche io il “mio pezzo”. Lavorerò anche io con nuova linfa, per far funzionare questa relazione.
Se sarà necessario, ne riformuleremo le premesse da capo, insieme.
Loro ed io, lasceremo parlare la nostra relazione.
E’ noto che una relazione non è mai a due, ma richiede il terzo elemento, la relazione stessa di cui prendersi cura.
𝐎𝐠𝐧𝐢 𝐭𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐚𝐥𝐥𝐨𝐫𝐚, 𝐥𝐚𝐬𝐜𝐢𝐚𝐦𝐨𝐥𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐥𝐚𝐫𝐞..
foto e articolo di ©Valentina Finocchiaro - 9 dicembre 2020
𝐒𝐔𝐋𝐋𝐄 𝐎𝐑𝐌𝐄 𝐃𝐄𝐋 𝐐𝐔𝐀𝐃𝐑𝐎: 𝐃𝐀𝐋𝐋𝐀 𝐑𝐀𝐏𝐏𝐑𝐄𝐒𝐄𝐍𝐓𝐀𝐙𝐈𝐎𝐍𝐄 𝐀𝐋𝐋’𝐈𝐃𝐄𝐀 𝐃𝐈 𝐒𝐄’
𝑃𝑜𝑟𝑡𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑡𝑟𝑎𝑐𝑐𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑐𝑖𝑜̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑖?
𝑈𝑛 𝑣𝑖𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜 𝑠𝑒𝑔𝑢𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑙𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑑𝑟𝑜: 𝑑𝑎𝑙 𝑛𝑎𝑟𝑐𝑖𝑠𝑖𝑠𝑚𝑜 𝑑𝑖 𝑵𝒂𝒓𝒄𝒊𝒔𝒐, 𝑎𝑙 𝑑𝑜𝑝𝑝𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑫𝒐𝒓𝒊𝒂𝒏 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑟𝑖𝑡𝑖𝑐𝑎 𝑑𝑖 𝑹𝒐𝒍𝒂𝒏𝒅 𝑩𝒂𝒓𝒕𝒉𝒆𝒔.
𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑒 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑎𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑐𝑖 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑎𝑛𝑜 𝑎 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑠𝑢 𝑛𝑜𝑖 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑖 𝑒 𝑎𝑑 𝑎𝑝𝑝𝑟𝑜𝑓𝑜𝑛𝑑𝑖𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑟𝑎𝑝𝑝𝑟𝑒𝑠𝑒𝑛𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑠𝑒’, 𝑝𝑒𝑟 𝑎𝑟𝑟𝑖𝑣𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑖 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑖 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑖: 𝒂𝒃𝒃𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒂𝒏𝒄𝒐𝒓𝒂 𝒃𝒊𝒔𝒐𝒈𝒏𝒐 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒓𝒂𝒑𝒑𝒓𝒆𝒔𝒆𝒏𝒕𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒆 𝒅𝒆𝒈𝒍𝒊 𝒂𝒍𝒕𝒓𝒊 𝒑𝒆𝒓 𝒅𝒊𝒓𝒆 𝒒𝒖𝒂𝒍𝒄𝒐𝒔𝒂 𝒅𝒊 𝒏𝒐𝒊.
𝐐𝐔𝐀𝐃𝐑𝐎
Parola semplice, lessico quotidiano.
Il termine si usa anche in teatro, come sinonimo di atto, oppure in medicina per indicare la situazione clinica di un paziente.
E’ utilizzata anche comunemente in qualche modo di dire.
Ad esempio, fare il “quadro della situazione” per indicare la spiegazione di una circostanza a qualcuno.
Oppure “sembrare un quadro”: che detto di un paesaggio ne indica la particolare bellezza, mentre di una donna, generalmente ne sottolinea il trucco troppo vistoso.
Definiremmo questa una persona narcisista?
Leggo nel dizionario Treccani online a proposito del termine narcisismo:
“𝑡𝑒𝑛𝑑𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑒 𝑎𝑡𝑡𝑒𝑔𝑔𝑖𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑝𝑠𝑖𝑐𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑖 𝑐ℎ𝑖 𝑓𝑎 𝑑𝑖 𝑠𝑒́ 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑜, 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎, 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑖𝑡𝑎̀ 𝑓𝑖𝑠𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑒 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑙𝑙𝑒𝑡𝑡𝑢𝑎𝑙𝑖, 𝑖𝑙 𝑐𝑒𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑒𝑠𝑐𝑙𝑢𝑠𝑖𝑣𝑜 𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑚𝑖𝑛𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑒 𝑙’𝑜𝑔𝑔𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑖𝑎𝑐𝑖𝑢𝑡𝑎 𝑎𝑚𝑚𝑖𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑚𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒 𝑟𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑜 𝑚𝑒𝑛𝑜 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑓𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑎𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑖, 𝑑𝑖 𝑐𝑢𝑖 𝑖𝑔𝑛𝑜𝑟𝑎 𝑜 𝑑𝑖𝑠𝑝𝑟𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑖𝑙 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑒 𝑙𝑒 𝑜𝑝𝑒𝑟𝑒.”
Molti ricorderanno il famoso 𝐪𝐮𝐚𝐝𝐫𝐨 𝐝𝐢 𝐂𝐚𝐫𝐚𝐯𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨, dipinto alla fine del Cinquecento.
I
n una cupa quanto tipica atmosfera caravaggesca, 𝐍𝐚𝐫𝐜𝐢𝐬𝐨 si specchia in una pozza e s’innamora del suo riflesso. Poco dopo cadrà, cercando di toccare quello che crede essere un bellissimo giovane e invece si rivela essere semplicemente la sua immagine.
Come i più certamente sanno, questo quadro prende spunto da un mito, contenuto all’interno della fonte classica mitologica forse più famosa: le 𝐌𝐞𝐭𝐚𝐦𝐨𝐫𝐟𝐨𝐬𝐢 𝐝𝐢 𝐎𝐯𝐢𝐝𝐢𝐨.
La sua conclusione recita così:
𝑈𝑛 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑜, 𝑚𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑏𝑜 𝑔𝑖𝑜𝑣𝑖𝑛𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑠𝑖 𝑏𝑎𝑔𝑛𝑎𝑣𝑎 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑓𝑖𝑢𝑚𝑒, 𝑣𝑖𝑑𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑎 𝑣𝑜𝑙𝑡𝑎 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑎 𝑛𝑒𝑙𝑙'𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎 𝑙𝑖𝑚𝑝𝑖𝑑𝑎 𝑙'𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑠𝑢𝑜 𝑣𝑖𝑠𝑜. 𝑆𝑒 𝑛𝑒 𝑖𝑛𝑛𝑎𝑚𝑜𝑟𝑜̀ 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑢𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑟𝑎𝑔𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑡𝑜𝑟𝑛𝑎𝑣𝑎 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑖𝑛𝑢𝑜 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑒 𝑟𝑖𝑣𝑒 𝑑𝑒𝑙 𝑓𝑖𝑢𝑚𝑒 𝑎𝑑 𝑎𝑚𝑚𝑖𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑓𝑟𝑒𝑑𝑑𝑎 𝑓𝑖𝑔𝑢𝑟𝑎.
𝑀𝑎 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑣𝑜𝑙𝑡𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑡𝑒𝑛𝑑𝑒𝑣𝑎 𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑛𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑡𝑒𝑛𝑡𝑎𝑡𝑖𝑣𝑜 𝑑𝑖 𝑎𝑓𝑓𝑒𝑟𝑟𝑎𝑟𝑙𝑎, 𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑓𝑖𝑐𝑖𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙'𝑎𝑐𝑞𝑢𝑎 𝑠'𝑖𝑛𝑐𝑟𝑒𝑠𝑝𝑎𝑣𝑎, 𝑜𝑛𝑑𝑒𝑔𝑔𝑖𝑎𝑣𝑎 𝑒 𝑙'𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒 𝑠𝑝𝑎𝑟𝑖𝑣𝑎.
𝑈𝑛𝑎 𝑚𝑎𝑡𝑡𝑖𝑛𝑎, 𝑝𝑒𝑟 𝑣𝑒𝑑𝑒𝑟𝑙𝑎 𝑚𝑒𝑔𝑙𝑖𝑜, 𝑠𝑖 𝑠𝑝𝑜𝑟𝑠𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑓𝑖𝑛𝑐ℎ𝑒́ 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑒 𝑙'𝑒𝑞𝑢𝑖𝑙𝑖𝑏𝑟𝑖𝑜 𝑐𝑎𝑑𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑎𝑐𝑞𝑢𝑒, 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑖 𝑟𝑖𝑛𝑐ℎ𝑖𝑢𝑠𝑒𝑟𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎 𝑑𝑖 𝑙𝑢𝑖.”
Quello che spesso viene tralasciato a proposito di questo racconto mitologico è la prima parte, quella in cui Narciso giovinetto dalla bellezza straordinaria e che mai invecchia, attira l’attenzione della ninfa Eco.
Lei s’innamora perdutamente ma lui la ignora, perciò Eco decide di seguirlo ovunque anche solo per osservarlo da lontano.
Il dolore per questo amore non ricambiato, spinge la ninfa a nascondersi in una caverna, finché il suo corpo non si dissolve e ne rimane solo la voce.
Avendo perso tutta la sua forza per invocare l’amato, Eco si limita da allora a ripetere l’ultima sillaba pronunciata dai viandanti, che passano lì vicino e chiamano a gran voce.
La storia di due individui, che si vedono da lontano, si sfiorano ma non si incontrano mai.
𝐿𝑎 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑑𝑢𝑒 𝑠𝑜𝑙𝑖𝑡𝑢𝑑𝑖𝑛𝑖 𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑓𝑖𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑑𝑢𝑒 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑖.
Pensandoci bene, questa è la caratteristica che più mi stupisce se penso a qualcuno che definirei “narciso”: la scelta di se stessi in modo così totalizzante, che finisce inevitabilmente per mette da parte gli altri.
Perché?
Come spesso accade, nelle situazioni di dubbio mi viene in aiuto la 𝐥𝐞𝐭𝐭𝐞𝐫𝐚𝐭𝐮𝐫𝐚.
Nel 𝒎𝒐𝒏𝒅𝒐 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒔𝒄𝒓𝒊𝒕𝒕𝒖𝒓𝒂 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒐 𝒑𝒖𝒐̀ 𝒔𝒖𝒄𝒄𝒆𝒅𝒆𝒓𝒆: l’immagine nella pozza può muoversi, pensare, parlare e vivere.
In quel caso Narciso avrebbe avuto qualcuno da amare nella realtà.
Quella che era nata come una rappresentazione del se’ esce dal quadro e prende vita, diventando 𝐝𝐨𝐩𝐩𝐢𝐨.
A questo punto, un altro quadro si fa spazio nella mia mente, preda delle brutture di una vita dissoluta, rinchiuso in una soffitta e nascosto per sempre alla vista di tutti.
Un quadro figlio di un accordo con la fonte di tutti i mali, che raccoglie gli esiti della decadenza morale del suo protagonista fino alla morte: 𝐢𝐥 𝐫𝐢𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐃𝐨𝐫𝐢𝐚𝐧 𝐆𝐫𝐞𝐲.
Il capostipite dei 𝐝𝐚𝐧𝐝𝐲 scampa al passare del tempo demandando l’invecchiamento e gli inevitabili segni delle sue azioni alla sua rappresentazione, ben conservata lontano dagli occhi di tutti.
Ma si tratta ancora una volta di letteratura, il luogo dove tutto può essere.
Nella realtà quello che facciamo, come ci sentiamo e quello che pensiamo di noi si riflette inevitabilmente su questo nostro corpo, che non possiamo far altro che mostrare agli altri.
Chiaramente una mostra di se’ che non può fare a meno del vestiario: un altro tema strettamente legato a questa figura.
Il critico 𝐑𝐨𝐥𝐚𝐧𝐝 𝐁𝐚𝐫𝐭𝐡𝐞𝐬 si è occupato della scomparsa di questa figura ottocentesca, approfondendone dapprima le radici storiche.
In un periodo come quello in cui il dandismo si diffonde, vale a dire dopo la Rivoluzione francese, il vestito è ben lungi dal perdere la connotazione sociale, che aveva avuto per lungo tempo.
L’essenza di questo particolare soggetto sociale sta in un’idea del se’ che passa dall’infinita ricerca di tratti distintivi nuovi e che gli permette di uscire dalle classificazioni sociali per opporre il singolo a tutti gli altri.
Ben presto questi “altri” diverranno una società di massa, ma il dandy non avrà modo di sopravvivere all’avvento della moda e a quella che Barthes chiama 𝐛𝐮𝐫𝐨𝐜𝐫𝐚𝐭𝐢𝐳𝐳𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐢𝐧𝐠𝐨𝐥𝐚𝐫𝐢𝐭𝐚̀.Il dandy deve trovare un suo spazio e necessita che sia particolare e diverso da tutti gli altri: per questo motivo si concentra non tanto sul vestiario, quanto sui dettagli.
A questo punto, seguendo le orme della parola “quadro” non possiamo che arrivare al Novecento: l’epoca della massa, della conformità (se volessimo introdurre il discorso dei totalitarismi ne avremmo di cose da dire…!) ma soprattutto, l’epoca della rappresentazione.
Dopo un’intera storia dell’uomo in cui miliardi di persone hanno trascorso la vita senza vedersi- e qui torniamo al nostro Narciso- e farsi rappresentare era decisamente un fatto che riguardava le 𝑒́𝑙𝑖𝑡𝑒𝑠, grazie all’avvento della fotografia il corpo diviene immagine e cambia la percezione che l’uomo ha di se’.
Barthes a questo punto pone un quesito, che lui chiama 𝐢𝐥 𝐩𝐫𝐨𝐛𝐥𝐞𝐦𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐞𝐟𝐟𝐢𝐠𝐢𝐞.
Le fotografie di corpi non solo belli ma perfetti e l’unione di questa rappresentazione con la pubblicità, che ne produce l’infinita riproducibilità, crea desiderio, ovvero la rinascita del narcisismo ma una sorta di fenomeno trasversale che riguarda non più il singolo ma la specie umana.
“𝑆𝑝𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑠𝑖 ℎ𝑎 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑙’𝑖𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑙𝑒 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑖𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑠𝑖 𝑒̀ 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑚𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑏𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑎 𝑑𝑒𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑎𝑟𝑒. 𝐸’ 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑢𝑛𝑜 𝑑𝑒𝑖 𝑟𝑖𝑠𝑢𝑙𝑡𝑎𝑡𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑢𝑙𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑠𝑠𝑎”:
con queste parole conclude il discorso il nostro Barthes.
Io mi chiedo quanto queste riflessioni siano attuali.
𝑷𝒐𝒓𝒕𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒕𝒓𝒂𝒄𝒄𝒊𝒂 𝒅𝒊 𝒄𝒊𝒐̀ 𝒄𝒉𝒆 𝒑𝒆𝒏𝒔𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒅𝒊 𝒏𝒐𝒊?
Torniamo a quella donna troppo truccata. Pensiamo a ciò che viene detto spesso di donne e uomini troppo alti, bassi, magri, grassi, con troppi piercing, tatuaggi, con i capelli colorati, con un abbigliamento considerato fuori dall’ordinario.
Arrivo rapidamente a oggi, per ricordare che solo pochi giorni fa abbiamo visto un’ex-modella, che ha bisogno nell’anno 2020 non tanto di comparire sulla rivista di un giornale senza veli per mostrare il suo corpo senza vergognarsene, quanto di commentare la cosa spiegando che ha tutto il diritto di vivere il proprio corpo come vuole, senza pensare ai commenti altrui e di mostrarlo così com’è.
𝐈𝐧 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐞𝐩𝐨𝐜𝐚 𝐬𝐭𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐯𝐢𝐯𝐞𝐧𝐝𝐨?
Quello che posso dire è che abbiamo ancora bisogno della rappresentazione e degli altri per dire qualcosa di noi stessi ma come dico sempre ai miei studenti, solo chi verrà dopo di noi potrà dare un nome a questo tempo e potrà finalmente fare chiarezza.
foto e articolo di ©Valentina Finocchiaro - 15 ottobre 2020
𝐑𝐈-𝐒𝐄𝐋𝐅𝐈𝐄 𝐃𝐈 𝐒𝐄’
Autoritratto.
Un genere artistico, generalmente pittorico, in cui l’autore si autorappresenta.
Spesso i pittori nell’antichità mostravano se stessi in un quadro, dipingendo il proprio volto tra quelli dei personaggi.
Una firma, prima dell’abitudine codificata di firmare i propri quadri.
E poi c’è il corrispettivo letterario: la confessione o il diario, in cui ci si narra.
Si aprono le porte della propria coscienza al mondo e si racconta di sé, delle proprie aspirazioni, dei desideri, di ciò che siamo e di come vorremmo essere.
Il corrispettivo contemporaneo giovanile – ma non solo- di tutto ciò?
Il 𝐬𝐞𝐥𝐟𝐢𝐞 e la descrizione della foto.
Noi siamo autori e al contempo protagonisti di un ritratto fotografico.
Noi decidiamo posa, costumi, scenografia, messaggio che vogliamo trasmettere a chi guarda.
Non siamo molto convinti di ciò che stiamo postando? Nessun problema!
In due parole: Instagram’s Story.
La rappresentazione diventa effimera, passeggera.
L’apoteosi della riproducibilità tecnica: la foto viene fatta, quindi riprodotta su un Social, per poi sparire entro 24 ore.
Cosa direbbe 𝑾𝒂𝒍𝒕𝒆𝒓 𝑩𝒆𝒏𝒋𝒂𝒎𝒊𝒏?
C’è poi un’altra questione: sui Social noi non siamo solo autori ma anche spettatori.
Se si pensa ad un quadro, il tempo era un fattore chiave, che interveniva di fatto nel modificare l’opera.
Di mezzo c’era un consistente momento di riflessione.
La distanza temporale tra l’idea, la ricerca di un mecenate e dei materiali, la creazione (molte volte modificata, come dimostrano i disegni, che spesso si trovano al di sotto della pittura sopra la tela) e l’esposizione al pubblico poteva essere di mesi o addirittura anni.
Oggi non c’è intervallo di tempo tra l’ideazione, la produzione e la fruizione della foto, se non lo spazio dei pochi secondi necessari per postarla.
Il nostro cervello riesce davvero a elaborare tutte le azioni meccaniche che compiamo quando passiamo dall’apprezzamento di una nostra foto alla pubblicazione?
Davvero tante sono gli interrogativi in merito alla questione.
Chi siamo VERAMENTE? e chi VOGLIAMO essere?
Come ci raccontiamo agli altri?
Quanto di ciò che includiamo nella nostra foto e di quello che scriviamo è orientato a presentarci agli altri o a mostrare un’immagine ideale di sé?
Non so voi ma com’è evidente io sono piena di domande: sarebbe bello poter riflettere su questi temi con un confronto.
Ancora meglio, sarebbe bellissimo avere qualcuno che fin da piccoli ci guidi in modo cosciente alla fruizione della nostra immagine.
Qualcuno che ci racconti una favola su come volerci bene.
foto e articolo di ©Valentina Finocchiaro - 17 settembre 2020
𝐒𝐏𝐄𝐂𝐂𝐇𝐈𝐎, 𝐒𝐏𝐄𝐂𝐂𝐇𝐈𝐎 𝐃𝐄𝐋𝐋𝐄 𝐌𝐈𝐄 𝐁𝐑𝐀𝐌𝐄...
Bambini.
Generalmente entrano nella tua vita da adulto quando diventi zio o zia.
Dopo alcuni anni passati a osservare i “bambini degli altri” e le facce da conseguente stanchezza di cognati e parenti, mista alla gioia infinita di una vita nuova e 15 mesi a rimpiangere la tranquillità perduta per l’arrivo di un cucciolo decisamente impegnativo, mio marito ed io abbiamo cominciato a pensare al futuro, come famiglia che andasse oltre la nostra unione.
In questo clima di speranze, recentemente mi è tornato alla mente dal passato e senza alcuna particolare occasione un ritornello, che fa più o meno così: “Noi siamo i cuccioli di mamma coccoli, siamo adorabili, papapapapà!”.
Una cassetta rossa, di quelle da ascoltare in loop nei viaggi in macchina e che quando veniva fuori la pellicola interna, per riavvolgerla si sistemava con la penna.
Niente spazio e tempo ma solo suoni, colori e una sensazione di familiarità: a volte i ricordi sono così.
Le favole solitamente fanno parte dell’infanzia.
Ognuno si avvicina a questi testi in vari modi, dai libri di gomma da portare in vasca per il bagnetto, a quelli sonori, alle prime letture a scuola o alla sera sul divano, ognuno con il suo libro, aspettando che papà torni dal lavoro, alle fiabe raccontate prima di dormire.
Favole e fiabe.
Nel linguaggio comune, sono divenute decisamente sinonimi ma quando se ne parla dal punto di vista tecnico, spesso ci si chiede quale sia davvero la differenza.
Le diversità riguardano principalmente i personaggi e l’ambientazione.
I protagonisti sono umani e i luoghi e il tempo sono realistici per la fiaba, mentre nella favola agiscono gli animali, seppur quasi sempre personificati, e lo scenario è solitamente fantastico.
Il punto centrale però, riguarda una componente del tutto assente nella fiaba e presente invece nella favola fin dalle sue origini antiche: la morale.
Vale a dire il messaggio, o meglio l’insegnamento che l’autore vuole trasmettere raccontando la sua favola.
Quando cresci nessuno più ti racconta le favole, semmai le persone non vedono l’ora di raccontarti la loro storia, discorso ben diverso.
Inoltre, con l’adolescenza comincia la consapevolezza di se’ e con essa nasce un discorso interiore, la favola che racconti a te stesso.
Non sempre per “insegnarti” qualcosa, a volte solo per fermarti a osservare ciò che capita, a te o agli altri.
In qualche momento questa conversazione interiore s’interrompe, lasciando spazio alla vita.
In altri casi, diventa il discorso di qualcun altro, anche se per un breve istante, come quando vedi un film o leggi un libro. Per questo motivo, la componente dell’immedesimazione diviene essenziale in questo tipo di esperienza.
Ti immergi nella vita di un’altra persona e magicamente accedi anche alla sua “chiacchierata interiore”.
Nella vita adulta, quale miglior momento per soffermarsi su ciò che ci diciamo, di quando ci guardiamo allo specchio?
Cosa vedi quando ti guardi? Solo il tuo aspetto? Io non credo.
Credo che quando osservi la tua immagine riflessa, al contempo ascolti il tuo discorso interiore e questo modifica ciò che vedi.
Una frase che può sembrare banale, come quella presa da una fiaba: “Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”, nasconde in se’ il segreto della rappresentazione.
Non vedi solo te stesso ma intravedi l’altra faccia della tua immagine: come vorresti essere.
Voi che favola vi raccontate?
Articolo di ©Valentina Finocchiaro - 16 luglio 2020
foto di © Chiara Resenterra
L'INIZIO SENZA FINE
“Ma la scuola è finita!”
Tipica frase da ultimo giorno di lezioni.
E poi un continuo susseguirsi di queste stesse parole, pronunciate da bocche diverse nei giorni successivi alla comunicazione di ogni incombenza da portare a termine.
Scrutini, pagelle, Piani di apprendimento individualizzato, verbali, programmazioni, relazioni finali, colloqui, collegio docenti.
NO.
Per noi, la scuola non è finita.
In ordine di “fortuna” si continua così.
Pausa estiva e richiesta di disoccupazione per due mesi.
Eesami di idoneità: si prosegue fino a inizio luglio o, in alternativa come quest’anno per qualcuno, si fa una pausa e si torna a scuola a luglio.
Esami di maturità: si continua ancora, se va bene fino a metà luglio.
“Ad agosto: ferie!”.
Certo ma, diciamocelo, questo accade un po’ in tutti i lavori da dipendente.
“Ma voi state a casa tutto il mese!”
Dopo la metà di agosto solitamente comincia l’organizzazione dei debiti, quest’anno gli alunni che hanno insufficienze tornano a scuola il 1 settembre.
Questo vuole dire riunioni, nuove lezioni da preparare, recuperi da organizzare.
NO.
Per noi la scuola non inizia il 12 settembre.
“Ma voi lavorate metà giornata!”
Questo è proprio un grande classico, che si ripropone nei secoli dei secoli.
Per quella performance, che dura 6 ore ci si prepara.
Se non sei pronto (e a volte malgrado tutto l’impegno capita!) ti ritrovi a dover gestire mediamente 25 personcine che ti osservano e vogliono-sapere-da-te-cosa-si-fa-subito!
Gli insegnanti sono continuamente posti di fronte al problem solving: imprevisti, mail a tutte le ore, attività nuove da assimilare e riorganizzare, ragazzi da spronare e genitori da rassicurare, a volte veri e propri cataclismi da gestire.
Ah sì, le verifiche e i compiti da preparare e poi da correggere, programmazioni iniziali, Piani didattici personalizzati, Piani formativi personalizzati, riunioni, verbali.
Piccoli dettagli.
NO.
Noi non lavoriamo metà giornata.
E poi c’è la migliore, quella fresca fresca di Covid.
“Ma con la DAD non avete fatto granché!”.
E qui ti parte l’embolo.
Vale la pena spiegare? Io davvero non lo so.
Non sono sicura che si possa parlare di Didattica a distanza, quando sono ancora così forti ignoranza e pregiudizi sulla didattica in sé.
Gli insegnanti non conoscono il lavoro altrui? Certamente.
Ma quante volte avete visto un docente sentenziare sul lavoro altrui, forse non molte?
Senza voler ovviamente generalizzare troppo, quello che un buon docente quasi sicuramente sa è che non si dovrebbe parlare di argomenti sui quali non si è abbastanza preparati.
Allora che si fa?
Diamoci un obiettivo, un compito.
Anche se la fine vera a oggi non si vede, l’inizio ci sarà e le incognite sono ancora molte.
Le preoccupazioni, anche.
Non mi occupo degli aspetti psicologici perché, per l’appunto, non mi competono ma ci sono e ci saranno.
Tornare in classe per qualcuno sarà entusiasmante, per qualcun altro decisamente faticoso.
Il compito estivo dei docenti potrebbe riassumersi in un imperativo verbale:
IMMAGINARE.
Immaginare una didattica nuova, efficace, non del tutto in presenza e non del tutto a distanza.
Immaginare situazioni integrate, che permettano la collaborazione senza l’assembramento.
Immaginare soluzioni per prevenire situazioni di disagio, per chi sarà a casa e per chi sarà a scuola.
Immaginare attività che non riaprano ferite ma che creino condivisione di progetti.
Immaginare il futuro.
Non è quello che facciamo ogni volta che contempliamo ognuno dei nostri studenti?
𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑖 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑎 𝑑𝑎𝑟𝑒 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎 𝑎𝑙 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜
𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑖 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑡𝑎̀
𝑆𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑖 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑎 𝑑𝑎𝑟𝑒 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎 𝑎𝑙 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜
𝐸 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑎 𝑐ℎ𝑖 𝑡𝑖 𝑑𝑖𝑐𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑐𝑜𝑠𝑖̀
𝐸 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑎 𝑐ℎ𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑐𝑟𝑒𝑑𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑖𝑎 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑖
(Luciano Ligabue)
Articolo e foto di © Valentina Finocchiaro - 25 giugno 2020
DIDATTICA A DISTANZA O DISTANZA DIDATTICA?
Si parla tanto di didattica in questo periodo.
O meglio, tutti ne parlano.
Chiunque si senta “lanciato” nel tema, legittimato o addirittura esperto oramai, perché questa ha perso la sua sede originaria, la scuola per entrare nelle nostre case.
Non è proprio una novità: va di gran moda oggi il “tutti parlano di tutto” dal virus ai decreti legge, qual che sia l’argomento del giorno.
La didattica, da febbraio 2020 in poi, ha assunto una strana forma liquida, che nel passaggio telematico dalle case dei docenti a quelle degli studenti si trasforma e diventa altro.
Ricominciamo allora dalle basi: cos’è la didattica?
“Quella parte dell’attività e della teoria educativa che concerne i metodi di insegnamento”.
Detta così sembra un’idea statica e stantia, che qualcuno ha elaborato in un lontano universo socratico e che si ripete all’infinito, sempre uguale a se stessa.
A settembre i docenti arrivano a scuola, belli freschi e riposati, un mesetto per conoscere i nuovi alunni e poi via andare, davanti al pc a scrivere una programmazione, che durerà per l’intero anno scolastico: nero su bianco.
Copia, incolla e modifica dall’anno precedente e via lavoro fatto, passiamo ad altro.
Quanto stabilito si riprenderà in mano solo a maggio, per verificare che gli argomenti previsti siano stati effettivamente svolti e stilare nuovi documenti.
In questo particolare momento storico siamo passati a una didattica diversa, che dovrebbe in teoria accorciare le distanze per entrare nelle case degli studenti e invece nella pratica per tanti si è dimostrata faticosa e a tratti perturbante.
In altri casi ancora peggiori poi, questa ha creato distanza: alunni scomparsi dalle video chat, che non fanno lezione e non consegnano i compiti….genitori? Spariti anche loro.
La didattica, al contrario di quello che si possa pensare, è invece una cosa viva.
Molto lontana dai libri e dalle pagine dei registri elettronici dove si compilano gli argomenti svolti di giorno in giorno e dalle cartellette in cui si conservano i programmi cartacei.
La didattica respira, si muove e si trasforma, almeno quanto i soggetti che la attraversano.
Respira attualità e confronto, nuovi metodi d’insegnamento e di verifica, nuove tecnologie.
Si muove tra i docenti e le materie e tra le proposte di contenuti inediti e di approfondimenti.
Infine si trasforma, quando diventa interdisciplinare e quando assume il carattere della condivisione tra docenti e con gli studenti.
Quando poi si compie la sua metamorfosi definitiva e lo scambio avviene tra alunni, allora i docenti assistono al “salto” di chi ha saputo scavalcare la barricata e arrivare dall’altra parte.
I docenti possono anch’essi assumere un ruolo vivo.
Il loro compito sarà di dare un esempio, accompagnare i ragazzi nell’esplorazione della conoscenza, guidarli attraverso gli strumenti critici a disposizione, illuminare la via per la costruzione di un’opinione originale e personale.
Sarà come leggere nei loro occhi queste nuove consapevolezze: “il protagonista del mio apprendimento sono io, la curiosità mi porterà lontano, lo spirito critico guiderà le mie scoperte.”
La didattica è una cosa viva, e come tale va nutrita, cresciuta e curata, finché i ragazzi di oggi non saranno pronti ad uscire dalla crisalide e spiccare il volo, per diventare i nuovi adulti di domani.
“La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma, come legna da ardere, ha bisogno solo di una scintilla che la accenda, che vi infonda l'impulso alla ricerca e il desiderio della verità.”
(Plutarco- De liberis educandis )
Articolo e foto di ©Valentina Finocchiaro - 14 maggio 2020
(nella foto una sessione di lavoro online con classe virtuale di Valentina)
LE MIE PAURE SONO UGUALI A QUELLE DEGLI ALTRI?
Mi chiedo se la paura sia un sentimento tanto soggettivo, da non poter essere perfettamente spiegato, compreso o condiviso.
Si può tentare di descriverne le manifestazioni, gli effetti collaterali; o ancora individuarne l’oggetto e le circostanze.
Ho la strana sensazione, però, che sia una di quelle cose difficili da identificare.
Il significato è chiaro: basta leggerlo su un dizionario.
Affine al mondo dell’interiorità più profonda, mi appare come un concetto alquanto relativo.
"Profe, io ho paura di salire in autobus da sola"
Pongo domande, cerco di capire meglio le angosce di chi è adolescente oggi e mi astengo quanto più possibile dai commenti.
Potrebbe sembrare un turbamento innocuo o infantile.
Un fatto è che alcuni timori, talvolta, quando esternati ci appaiano più “sopportabili”.
Entro la mattinata la mia studentessa aveva già trovato una compagna con la stessa paura.
Chissà se proveranno a prendere il pullman “da sole ma insieme”: ognuno con la propria paura.
Potrebbe essere davvero un bel primo passo.
E se avessimo le stesse paure dall’inizio alla fine della nostra vita?
Oppure dal principio alla conclusione di qualcosa: una relazione, un percorso, un passaggio, un momento di transizione.
Sicuramente riusciremmo meglio ad affrontare i nostri timori, a smorzarli oppure - alla peggio!- a conviverci.
Sarebbe bello, ma purtroppo così non è: le ansie peggiori sono infide, sono furbe.
Mutano, si trasformano, talvolta diventano sottili come ombre al sole e in altri casi, al contrario si amplificano. Cala la sera e il terrore si intensifica.
Credo proprio che stia qui la fregatura: ogni giorno si deve cominciare daccapo.
Eppure la “Sera” per molti autori è stata in letteratura fonte di sollievo più che di paura.
Il momento del riposo dalla fatica del vivere.
Ah sì, poi ci sono QUELLE paure.
Quelle indicibili.
"Vede questa parte? E’ l’ippocampo. In quest’area si trovano i ricordi più recenti, saranno quelli i primi che perderà. Poi sarà colpita la parte frontale: l’elaborazione del ragionamento logico, compromettendo la sua capacità di risolvere i problemi. Poi sarà la volta della parte posteriore del cervello, dove sono conservati i ricordi più vecchi. Ha capito la situazione?"
"No, no mi spiace"
(dal film Vivere due volte” – Maria Ripoll – 2020)
Solo per fare un esempio.
Mi verrebbe da dire che forse queste sono le vere paure universali.
Quelle di serie A: tutti le comprendiamo e le condividiamo.
Ci scavano dentro con un lavorio silenzioso ma nessuno ne vuole parlare.
Voi di cosa avete paura?
Articolo e foto di ©Valentina Finocchiaro - 19 febbraio 2020
editing della foto Chiara Resenterra
DOVE ANDATE A
SAN VALENTINO?
Incubo.
Per chi è accoppiato e chi non lo è.
Per chi festeggia e quindi deve ne-ces-sa-ria-men-te trovare un posto per cena…libero!
Per chi non lo festeggia e chi è felicemente single: quindi non gliene può fregare di meno.
Per tutti, ma proprio tutti, quando al telegiornale arriva l’immancabile servizio, su cioccolatini e tavolini a lume di candela.
Mi sono chiesta perché proprio san Valentino? Diciamo che la mia motivazione è un po’ più ampia.
Quasi ontologica direi, ma in fondo ho già parlato della mia passione per il naming.
Il mio nome lo scelse mio papà e l’alternativa sarebbe stata “Ugo”- non ho mai capito se mi prende in giro quando lo dice-. Forse ora avrò occasione di chiederglielo e domandargli anche perché proprio Valentina.
Il primo riferimento letterario che collega il santo all’amore, si trova nel poema “The Parliament of Fowls” di Geoffrey Chaucer, che in italiano suona più o meno come “Il Parlamento degli Uccelli”.
Davvero poco romantico!
In questi versi San Valentino da Terni, che aveva consacrato l’amore di una cristiana e un romano sposandoli, è associato alla figura di Cupido e come tale collegato all’amore.
Questa relazione contrastata non poteva che farmi pensare a Shakespeare.
Strano che mi venga in mente un’opera tanto tragica.
Può essere un’esperienza leggere un testo teatrale: immaginare situazioni e dare forma ai personaggi, quando sono poco descritti ma contornati attraverso i dialoghi e i movimenti sulla scena.
“Oh Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo?
Rinnega tuo padre e rifiuta il tuo nome,
oppure, se non vuoi, giura che sei mio
e smetterò d’essere una Capuleti.”
Questi i versi più famosi: rinunciare al proprio nome, in nome dell’amore.
Chi lo farebbe?
Penso che in fondo il mio nome mi rispecchi, in qualche modo mi rappresenti.
Sarebbe bello scegliersi il nome da soli, nel momento in cui arriva la consapevolezza giusta.
Ma così passeremmo un bel pezzo di vita (per qualcuno magari anche tutta!) senza sapere davvero chi siamo.
Forse, se potessi, lo sceglierei anch’io per me.
Valentina.
Chi ti dà il nome dà vita ad una relazione profonda e radicata.
Ti apre una strada, ti mostra una possibilità: poi sta a te.
Qui sembra davvero che il concetto di fato, tante volte spiegato in classe, prenda vita letteralmente.
Comunque vada questo ennesimo san Valentino, la fortuna di amarsi, amare ed essere amati si festeggia anche solo guardandosi in viso, con un grosso sorriso e gli occhi che brillano.
È bellissimo poter essere in due a farlo, ma questo si può fare anche da soli, guardandosi in uno specchio.
Da ripetere ogni mattina, appena svegli.
“But don’t change your hair for me
Not if you care for me
Stay little Valentine, stay
Each day is Valentines day”.
“My funny Valentine” – Frank Sinatra
Articolo di ©Valentina Finocchiaro - 14 febbraio 2020
editing della foto Chiara Resenterra
APPARTENERE O NO?
Io oggi dico senza dubbio appartenerSI.
Dove quel “SÌ” non è altro da noi stessi.
Motorino F10. 120 mila chilometri. Nel frattempo è pure fallita la Malaguti.
Dopo 15 anni ho dovuto salutarlo e mi è costato davvero tanta, tanta fatica.
L’esame per il patentino, l’appuntamento al semaforo per percorrere la strada insieme con la compagna vicina di casa, le corse per arrivare puntuale a scuola la mattina e i ciottoli che ti facevano sballottolare per salire in città alta.
L’iniziale e totale incapacità nell’usare la pedalina e gli implacabili raffreddori e dolori intercostali.
Un solo incidente, una sola volta senza benzina, un’unica occasione in cui mi hanno fermato i vigili.
Le buche e i dossi che, presi in velocità, ti regalavano botte da orbi sul naso e sulla faccia, che immancabilmente andavano a sbattere sul parabrezza.
L’incredibile accensione immediata, dopo tre giorni nella neve fuori da scuola.
Penso di sfuggita al buon vecchio Alex e a “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, penso ad Ambra che cantava “T’appartengo e io ci tengo e se prometto, poi mantengo. Giura!”.
Ricordi adolescenziali che ti riportano indietro, la potenza di un libro e di una canzone.
Non immaginavo; ma infondo so il perché mi sia costato tanto questo congedo.
A volte gli oggetti, specialmente quelli che conserviamo con cura da tanto tempo, nascondono un valore affettivo in cui ci riconosciamo, in cui vediamo noi stessi in un periodo della nostra vita.
Malgrado la voglia di rimanere ancorata ad un periodo che di fatto non c’è più, malgrado quella resistenza al cambiamento che si ripropone ciclicamente, questo passo andava fatto.
Non stavo semplicemente salutando un motorino, stavo dicendo addio alla mia adolescenza.
Ripenso con tenerezza alla ragazzina che ero e che ha sempre cercato di colmare, un po’ come tutti, con la presenza altrui il suo bisogno di appartenenza.
La famiglia, l’amore, il gruppo di amici, le amiche più strette, i colleghi.
Poi qualcuno mi ha fatto notare con semplicità che potevo essere io quella presenza, che potevo bastare a me stessa.
Ho promesso che ci avrei riflettuto e ho fatto i compiti a casa.
La mia prospettiva è cambiata.
Aggiungo solo che secondo me per “appartenersi” davvero è necessario essere se stessi.
Non si può fingere, non ci sono scorciatoie ma quando ti riconosci, senti nel bene e nel male di appartenerTI davvero.
“Presto sarebbe volato via pure quello stupido febbraio e il vecchio Alex si sentiva profondamente infelice ma in modo distaccato, come se la sua vita appartenesse - sensazione fin troppo tipica e cruda ne convengo - a qualcun altro [...]”.
Jack Frusciante è uscito dal gruppo – Enrico Brizzi, 1994
Articolo e foto di ©valentina Finocchiaro - 30 gennaio 2020
editing della foto Chiara Resenterra
SARÀ FINALMENTE
L’ANNO DELLA RINASCITA?
Non ricordo esattamente quando sia iniziata questa tradizione.
Ricordo un bigliettino su un armadio che non esiste più, in una camera di nessuno.
Nottate agitate e sveglia presto, per ripassare la cellula eucariote o la ricerca sui denti, nel terrore più nero della prof. di Scienze.
Un augurio che è diventato un mantra, anno dopo anno.
Questo sarà “l’anno della rinascita!”.
Quasi dovessimo riprenderci da chissà quale avvenimento sconvolgente o dimostrare al mondo e alla vita di essere donne forti.
Due ragazzine con i jeans a vita bassa, la maglietta bianca e la felpa grigia, che si scambiavano i vestiti nella toilette del Ciao.
A distanza di anni, la frase si ripete nei biglietti d’auguri e, pensandoci bene, forse un anno della rinascita non c’è mai stato. La vita, però, ci ha spinto a fare, a migliorarci, a volere di più e poi a fermarci, a pensare, a prenderci cura di noi e di altri.
Donne forti, nel nostro piccolo, lo siamo diventate.
Ho sempre amato dare un nome alle cose.
Definire ogni cosa con il proprio nome mi dà un senso di pienezza, di completezza, di giustizia.
Ripenso a discorsi recenti, in cui cerco di definire me stessa con i ragazzi, attraverso il mio ruolo, la mia funzione sociale.
Loro sono come un grande specchio: inflessibili e implacabili nel pretendere verità.
Meglio: con loro cerco di precisare quello che essere insegnante vuol dire PER ME.
Ho definito me stessa mediatore culturale: <<un po' come i Fenici
E poi ho spiegato che non faccio ricerca storica, non scrivo grandi opere letterarie, non sono un critico e non sono un giornalista.
Raccolgo il pensiero altrui e cerco di portarlo all’attenzione, di renderlo affascinante, di avvicinarlo all’esperienza di ragazzi molto spesso, loro malgrado, poco interessati.
E a volte ci riesco.
Una grande, immensa soddisfazione.
“Profe, in fondo i Promessi sposi non sono così male!” e un grande “EVVIVA!” dentro di me.
Per il nuovo anno non mi faccio auguri particolari, non ho Grandi Speranze.
Mi ritengo davvero molto fortunata già così.
Ho piccoli desideri nascosti, che spero troveranno modo di esaudirsi.
Ma se non sarà così, andrà bene lo stesso.
Spero ci saranno un altro anno, diverse prospettive, nuovi incontri e inedite opportunità da cogliere.
Per il nuovo anno mi auguro di avere la forza di fare ancora un piccolo passo avanti.
Poter percorrere ancora una breve parte di quella strada verso la consapevolezza di ME.
Saper dire “Io ci sono, sono questo e vorrei diventare così”.
VOI COSA VI AUGURATE PER IL NUOVO ANNO?
Articolo di ©Valentina Finocchiaro - 27 dicembre 2019
Editing della foto: Chiara Resenterra
ALL I WANT FOR
CHRISTMAS IS?
Sono in aeroporto.
Ho paura perché il tempo ancora una volta non mi accompagna e prendere l’aereo da sola in questi momenti proprio non mi va.
Due ragazzi vicino a me parlano di matrimoni e penso che questi giorni di toccata e fuga dal sud, non abbiano nulla a che fare con i ricordi delle due interminabili settimane di vacanze natalizie.
E allora penso, proprio quest’anno che ho deciso di scappare, che per Natale vorrei impacchettare le persone.
Vorrei far tornare chi non c’è più e chi è andato via troppo presto.
Pensandoci bene le persone le “impacchettiamo” comunque e in ogni momento dell’anno.
Le ricopriamo di ricordi, le avvolgiamo nelle situazioni già vissute, le contorniamo delle nostre esperienze passate e le filtriamo attraverso le nostre emozioni.
La verità è che per Natale vorrei spacchettare i ricordi e trovare, oltre alle persone, le feste che non ci sono più.
Il profumo di mare e la salsedine sui vetri della sala, il pendolo che suona forte all’ingresso, le frittelle della Vigilia, il pomeriggio con papà a fare i pacchetti, il brodo di Santo Stefano, con i gamberoni per antipasto.
Chi arriva la mattina chiedendo un panino con il tonno e chi spara i botti a capodanno con l’elmetto del nonno in testa.
I grandi saloni illuminati con lo scalone, da percorrere appiccicate per terra gradino per gradino, fino ad arrivare al grande albero illuminato e alla macchinina rossa a pedali.
Interminabili sessioni di apertura regali, che terminavano con scambi di agende e oggetti più disparati, venuti fuori dagli immancabili pacchi aziendali.
E poi le poesie e le canzoni dei bimbi, con i primi cellulari e il piccolo della famiglia, che pieno di gioia parla con “Babbo Natale” al telefono e gli chiede:
“Come stai?”.
Vorrei correre per gli ultimi doni a cercare le persone che non ci sono più.
Poi penso che in realtà per qualcuno che non c’è, tanti altri sono arrivati.
È un Natale diverso quello degli ultimi anni.
Li osservo di sottecchi mentre siamo tutti riuniti, generalmente attorno a tavolate incasinate, con il cane che, in un momento di distrazione generale, agguanta mezzo salame e cerca di ingoiarlo intero.
Sono indifferentemente del nord e del sud, italiani e stranieri, vicini e lontani.
Tutti pronti a condividere se stessi e il proprio affetto, i ricordi e le risate.
Stavolta il salone è il mio, il tavolo grande sta per arrivare.
Aspetto la prossima cena di Natale per riunirli tutti, ma proprio tutti e già m’immagino come sarà festeggiare di nuovo insieme.
Chi lo è diventato per davvero e chi è come se lo fosse da una vita.
Chi è arrivato da poco, chi è tornato e chi si è riscoperto.
Sono loro a creare nuovi ricordi, sono loro che mi fanno sperare che Natale possa essere ancora la felicità colorata e rassicurante di un tempo ma con la consapevolezza di oggi.
Senza mai dimenticare gli affetti più cari, presenti e passati, gli amici sono la mia famiglia.
E il vostro Natale com’è?
Articolo di ©Valentina Finocchiaro - 16 dicembre 2019
Editing della foto: Chiara Resenterra
ANSIA DA REGALI DI NATALE. L’AVETE MAI PROVATA?
Me la immagino come il personaggio di un libro: un’ombra oscura e allungata, dalla forma simile a quella di Jack Skeletron, che insolitamente quest’anno mi sta seguendo, mi sta scrutando da lontano e sta aspettando il momento giusto per farmi un agguato.
Eppure un tempo era facile pensare a qualcosa di azzeccato per ogni persona speciale. Qualche volta ho pensato davvero di essere brava: avevo trovato il regalo che in quel momento sembrava perfetto.
Il gatto mi guarda con fare interrogativo e sembra dirmi:
“Quante volte pensavi fosse il regalo giusto e ti sei sbagliata?”
E’ un attimo: il dono esce dai tuoi pensieri e si materializza come troppo, troppo poco, inadeguato e sbagliato, tanto che vorresti impacchettarlo di nuovo e riportarlo in negozio. Oppure sotterrarti quando l’altra persona lo apre e, con fare goffo, abbozza un mezzo sorriso ma con evidente imbarazzo.
Forse quello che manca davvero oggi è il tempo per scegliere.
Non arraffare cose all’ultimo momento in un centro commerciale affollato, ma scoprire piccoli oggetti della felicità nei negozietti del centro.
Scovare il mercatino giusto, con oggetti particolari per non esser banali.
Evitare di regalare ogni anno il classico maglione; magari con le renne.
Prendersi tempo per cercare, per farsi consigliare, per meditare: un pensiero speciale per ogni persona del cuore.
E poi c’è tutta la storia dei pacchetti.
Perché dedicarcisi di fretta il giorno prima della Vigilia, quando avranno solo un breve momento di vita per essere poi scartati, con un evidente e inutile sperpero?
Quindi pensiamo al packaging ecologico, tanto di moda oggi.
A che scopo sprecare carte patinate e costosissime, quando si può riutilizzare quella dei giornali o dei volantini usati?
Quei tabloid nell’angolo del salotto, abbandonati da un mese, perché letti e riletti o i flyer con le offerte o la settimana enigmistica, cominciata in aereo e mai finita.
Pacchetti contornati di nastri riutilizzati e ninnoli decorativi e colorati.
Quando ci prendiamo il giusto tempo per la cura nel fare i regali, in fondo è come se ci mettessimo un po’ di noi stessi.
E allora la verità è che secondo me a volte gli oggetti sono doni inadeguati: forse da questo deriva il mio disagio di quest’anno.
Sento che regalare oggetti sarebbe come travisare il vero senso delle feste: colmare il bisogno di presenza con un’effimera materialità.
Quello che vorrei fare quest’anno è prendere scatole di cartone e riempirle di tempo e di pensieri, metterle sotto l’albero e vedere la faccia di amici e parenti nell’aprire scatole vuote di oggetti ma piene della volontà di stare insieme e ricordarsi, a Natale più che mai, che ciò di cui abbiamo veramente bisogno e che cerchiamo tutti è attenzione, cura e amore e che confinare tutte queste cose in un regalo impacchettato è maledettamente difficile.
Articolo di ©Valentina Finocchiaro - 2 dicembre 2019
Editing della foto: Chiara Resenterra
AVETE PRESENTE
“GHIACCIO BOLLENTE?”
Come dimenticare l’esempio più quotato dai docenti dell’ossimoro?
Le tanto odiate figure retoriche: incubo perfino degli studenti più bravi, quando dovevi studiare a memoria un esempio per ognuna di esse.
Un po’ come i verbi irregolari in inglese, formule di matematica, chimica e fisica.
I teoremi di geometria e le declinazioni di latino e tedesco.
E si potrebbe andare avanti ancora.
Le figure retoriche non mi piacciono.
In sostanza un ossimoro, detto da una che ha fatto dell’insegnamento e per di più dell’italiano metà del suo lavoro.
Può darsi che la pensi così perché non ho mai amato particolarmente la poesia.
Perfino quando trovo una figura retorica in un testo di prosa, ne apprezzo la bellezza ma se diventano troppe, mi disturbano.
L’ossimoro, poi, è una di quelle che m’inquietano proprio.
Probabilmente è l’idea di due concetti racchiusi in uno o che un’unità sia anche implicitamente e profondamente duale.
Trasposto in prosa, a me sicuramente più congeniale, l’ossimoro è assimilabile al concetto di doppio.
Intere lezioni di letteratura inglese della Violi, una professoressa che portava in se’, ma nella sua figura proprio, le tematiche dei suoi corsi.
Irrimediabilmente vestita di nero, occhi verdi e capelli neri raccolti, cappotto lungo, sopra abiti altrettanto lunghi e neri: unico colore, un rossetto rosso sangue.
Seguivamo tutti rapiti le sue lezioni; quasi si potesse, seguendola, avere accesso a un mondo altro e oscuro.
Il gotico era il suo argomento preferito: il perturbante uno dei concetti più ricorrenti.
Allora forse è questo che mi disturba tanto dell’ossimoro.
L’altra metà di qualcosa, che non è completezza ma contrapposizione.
Come quando vedo i telefilm su delitti e criminali ma poi la notte non dormo.
L’ombra che segue il personaggio, ma non è altro che la proiezione del suo lato oscuro.
Il gemello cattivo.
Il quadro che invecchia in soffitta al suo posto.
Per esserlo davvero, il perturbante deve essere affascinante, attrarti e portarti nel suo mondo, annullando in un secondo tutte le tue certezze.
Non ci faccio ancora pace con QUEL lato di me.
Quello che trasforma una persona generalmente mite in una furia.
Quello che quando tento di correre, ma qualcosa non va, mi blocca il fiato in gola.
Quello che mi fa svegliare preoccupata al mattino senza un perché.
Quello che mi fa lacrimare e mi strozza le parole in gola, quando canto canzoni che parlano per me.
Perennemente alla ricerca di un equilibrio che non arriva mai, il lato oscuro si manifesta nei momenti più insospettabili, mi colpisce e mi lascia senza forze.
Come uno schiaffo in piena faccia.
E io rimango inerme.
Forse non arriverà mai la fine di questa storia, Voldemort non sarà mai sconfitto, non ci sarà un ultimo capitolo in cui il bene trionfa, un momento catartico.
Perché una parte di te non la puoi eliminare premendo il tasto “cancella”, per poi andare avanti come se niente fosse.
Come quel difetto fisico che nascondiamo con tanta fatica e che con altrettanta prontezza ritorna ciclicamente a mostrarsi, anche con un semplice ricordo.
E allora che fare?
Fuggiamo.
A gambe levate proprio.
Non vogliamo vedere, non vogliamo sentire, non vogliamo essere.
Ci sarà mai una fine?
Forse una fine no, ma una resa sì.
Accogliere quelle sensazioni permettere loro di vivere, di attraversarci e di sconvolgerci.
Che fare?
Teniamoci ben saldi, aggrappiamoci a chi sa riportarci con i piedi per terra, a quelle persone che quando le vedi ti sollevano e ti fanno sentire leggero, a quella parte di noi che sa ridere, gioire e voler bene e accettiamoci.
O meglio, dovrei dire ACCOGLIAMOCI.
Vogliamoci bene anche per questo convivente cattivo.
Per il diverso che ci abita e ci permette di essere altro da noi.
Giusta o sbagliata, buona o cattiva che sia, quella rimane comunque una parte di noi.
A volte vien fuori incontrollata e libera, priva di quella ferma e costante motivazione a essere come si vorrebbe.
Slegata dai vincoli delle regole sociali e di quelli che noi imponiamo a noi stessi, sarà pur sempre parte della nostra unicità.
E voi come affrontate il vostro ossimoro quotidiano?
Articolodi ©Valentina Finocchiaro - 26 novembre 2019
Editing della foto di Chiara Resenterra
“I LIBRI PARLANO?”
Mi cade l’occhio sulla libreria. Brutta.
Non l’ho scelta io, l’ho trovata in casa – la mia nuova meravigliosa casa – ma questa è un’altra storia.
Lo vedo, lo osservo. Un volume vecchio, smangiato da un coniglio, regalo di compleanno e avuto in casa per poco. Lo apro. “Ad Anna, con affetto Eugenia”: non so chi siano.
Data: 14-11-1983. Non ero nemmeno nata.
Sulla copertina ingiallita un disegno di montagne, alberi e uccelli, il titolo e l’autore in corsivo.
“Cent’anni di solitudine, Gabriel Garcìa Màrquez.”
Ho la netta sensazione che questo libro mi stia chiamando. Ora.
Prepotentemente.
Non mi capita da molto tempo e quasi mai con libri già letti.
Ma dopo forse quindici anni da quando ne rimasi folgorata, mi trovo a chiedermi perché quel libro mi aveva colpito così tanto, da farmi produrre per l’insegnante di italiano – in cui, mio malgrado, ultimamente mi rivedo e specialmente negli scleri quotidiani- una scheda libro con la ricostruzione di tutto l’albero genealogico della famiglia.
“Come si chiamava?”
Devo aprirlo e cercare.
Ma cosa cerco veramente?
Cerco il SENSO. Il mio.
A volte la passività è puramente mentale: rifugiarsi nel fare, fare, fare senza fermarsi a pensare.
Darsi il tempo di capire, farsi un’idea propria: tutto questo richiede fatica.
“José Arcadio Buendìa. Macondo. Melquìades.”
Nomi già sentiti, vaghi ricordi.
Non credo questo libro potrà parlarmi facilmente di nuovo.
Lo apro e mi preparo a rileggere queste 400 pagine.
Mi preparo a ricordare ma soprattutto a dare un significato nuovo.
Alla fine Cent’anni di solitudine ha trovato il modo di parlarmi.
Ho intravisto il senso che cercavo e l’ho capito.
Ma andiamo con ordine.
Ho letto un centinaio di pagine.
Inizialmente è stato confortante immergermi nuovamente nelle vicende dei personaggi in quel di Macondo.
Ma poi la mia prospettiva è cambiata, leggere è diventato faticoso.
In fondo, una vocina nella testa mi diceva che non avrei finito di rileggerlo ora.
E così è stato.
Quel libro, pur senza arrivare alla fine, mi ha dato le risposte che stavo cercando.
Uno.
Il mio mood adolescenziale introspettivo e riservato era sicuramente più in linea con l’atmosfera di confusione solitaria del libro; in cui i personaggi si avvicendano e, uno dopo l’altro, si fanno spazio nel testo. Tutti per ribadire il concetto secondo cui, per quanto contornati di persone, alla fine non viviamo che nella nostra solitudine.
Due.
Posso chiedere del tempo per me.
Posso chiudere la porta, lasciare faccende, lavoro, famiglia, tutto da parte e chiedere un po’ di tempo per me.
Mi è concesso ora. Senza aspettare domani o il weekend.
Anche se poi si riduce a mezz’ora, perché alle 21 sto già crollando dal sonno.
Non importa: sarà stato tempo per me.
Prendo atto del fatto che sono cambiata e mi appello al mio diritto di lettore.
Secondo Daniel Pennac il numero tre: “Il diritto di non finire un libro”.
Chissà se Cent’anni di solitudine mi chiamerà nuovamente, quando sarò una vecchia gattara, che trascorre le giornate sulla sedia a dondolo vicino alla finestra a leggere, con gli occhiali sul naso e la copertina rattoppata sulle spalle.
Lo spero, perché sono sicura che, pur nel turbine di personaggi che vorticano da una generazione all’altra e nella ripetizione interminabile degli stessi nomi, quel libro mi suggerirà ancora qualcosa di importante.
Mi svelerà qualcosa di nuovo su di me.
Articolo di ©Valentina Finocchiaro - 18 novembre 2019
Editing della foto di Chiara Resenterra
SIAMO ANIME GEMELLE?
Due metà della mela.
Il completamento l’uno dell’altra.
E viceversa.
Se fossimo continenti, non potremmo essere ai poli più opposti della Terra.
Tento affannosamente di mantenere un po’ di ordine in casa.
Arriva alle 17, molla tutto in giro, fa saltare i cuscini fuori dal letto “faccio una partitina!” e chi lo vede più fino a ora di cena.
Lo aspetto tutto il giorno per cenare insieme.
“Stasera mi fermo al pub, c’è la partita. Torno tardi”.
Cambiamo casa!
Un numero infinitamente alto di annunci di immobiliari online e due anni per trovarla.
Altri sei mesi per entrare.
Dobbiamo comprare il tavolo nuovo.
Nulla: finché non ha girato un’intera lista di negozi di mobili e chiesto preventivi in tutto il circondario di tre regioni italiane, per farsi odiare da mille commessi diversi.
Chissà perché si ricordano tutti di lui quando torna.
C’è il ponte: weekend fuori!
Nei ponti c’è traffico, stiamo a casa.
Vorrei prendere il cane.
Per prendere il cane dobbiamo avere il giardino.
Ho aspettato sei anni, forse di più.
L’abbiamo preso ma è sfortunatamente pazzoide.
Me lo rinfaccia da sei mesi. Come finirà?
Sabato andiamo da qualche parte?
C’è il battesimo di nostro nipote.
Vero. Quello successivo?
E’ il compleanno di mio papà.
Ok. Quello ancora dopo?
Ma poi mio padre parte, dobbiamo salutarlo.
E poi?
Mia mamma è da sola, andiamo a pranzo da lei!
Per proseguire, rivedere tre domande sopra e ripetere la lettura daccapo.
E poi ci sono io. La sua lista sarebbe altrettanto lunga, ne sono sicura – sorrido-.
E poi ci sono gli altri.
“Altri” importanti, che non puoi ignorare.
Venite a fare colazione?
Venite a pranzo?
Venite a cena?
Venite in vacanza con noi?
Non ci vediamo mai!
Quando sistemate il giardino?
Quando ti danno l’indeterminato?
Quando fate addestrare questo cane?
QUANDO FATE UN NIPOTINO???
Insomma, anni e anni di un marasma incredibile.
Poi ti guardo di nascosto, fai le solite cose da una vita.
Dici persino le solite cose.
Canti le stesse canzoni con le stesse parole sbagliate.
“Con la mia palla lanciata un po’ più in su…” e via al Principe di Bel Air.
“Mi dispiace devo andareeeeeee”, ogni volta che esci di casa.
Io rido ogni volta. Mi vedi ridere e ridi anche tu.
Potrei finire le tue frasi, come so quando non pensi a nulla e mi dici “Penso ai piccioni!”.
Sei arrivato, in ritardo, un pomeriggio di marzo “perché stavo vincendo un torneo alla Play” –certe cose davvero non cambiano mai!- e sono passati 14 anni così.
In un soffio.
Più della metà della mia vita l’ho passata con te e come fosse prima, ora non lo ricordo più.
Non so se rispecchiamo semplicemente un cliché.
Un amore stereotipato alla “Sandra e Raimondo”, per capirci.
Magari è il presupposto ad essere sbagliato.
Abbiamo un’idea dell’amore che ricalca quella dei film, o meglio, quella delle favole poi riproposta identica in moltissimi film: lui incontra lei, si innamorano e vissero tutti felici e contenti.
In realtà non siamo la metà di nulla, se non la metà di un caos, che spesso fatica a trovare un centro.
Però siamo noi. E siamo così.
Ci affanniamo a cercare qualcuno che ci completi ma forse abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci accompagni.
Un compagno, o una compagna, per tutta la vita. O magari solo per una parte.
Ma che sia disposto, scendendo almeno un milione di scale ad arrivare fino in fondo con noi.
Chi è il vostro compagno di vita?
Articolo di ©Valentina Finocchiaro - 11 novembre 2019
Editing della foto di Chiara Resenterra
I PROFESSORI SI ANNOIANO?
Da studenti vi annoiavate a scuola?
I più credono che il tema “La noia a scuola” riguardi alunni svogliati, incapaci di trovare stimoli culturali o sociali, che non risiedano in mezzi tecnologici. Ragazzi che solitamente passano ore davanti a pc programmati per riempire giornate già piene di sport e corsi vari, scelti per lo più dai genitori e, per di più, persino odiati dai figli.
Ma gli insegnanti si annoiano?
SORPRESA!
Sì.
La differenza è che gli studenti si aspettano che il professore arrivi in classe sempre con la passione in tasca: che sia mosso tutti i giorni dall’entusiasmo di condividere il proprio sapere, con studenti incuriositi e propositivi. Nella realtà però spesso i docenti non sono così appassionati e gli alunni vivono le lezioni con passività.
L’entusiasmo si scontra con il mostro cieco e sordo della quotidianità. C’è chi ha figli, c’è chi ha un cane “pazzo-mangia tutto”, c’è chi ha il tennis del lunedì sera o la palestra “perché se no mi viene mal di schiena”, c’è chi ha la casa da pulire, la mamma ingombrante, il papà che vive fuori e la sorella che “tra un mese ci sposiamo!”.
“E allora?” Direbbe qualcuno.
“Con tutto il tempo libero che avete voi insegnanti, vi manca pure la passione di insegnare?”
A volte sì.
Ma poi anche in quelle giornate storte, metti un piede in classe.
Posi le immancabili borse-mattone con cui vai in giro (perché della schiena degli insegnanti non si interessa nessuno) e ti siedi.
Vorresti cominciare ma le immancabili domande, richieste, battute e perplessità te lo impediscono.
E poi c’è il registro elettronico, la segretaria che entra in classe con la circolare urgente e ancora l’alunno, che immancabilmente arriva in ritardo.
Ma poi cominci.
Una parola dietro l’altra.
Si susseguono con una naturalezza che in prima battuta ti stupisce, poi ti dà confidenza e infine soddisfazione.
Anche oggi ho fatto quello che mi piace.
La passione dell’insegnamento a volte arriva dopo. Ma quando arriva ti colpisce con un’immediatezza che ti fa pensare, al limite tra la sorpresa e l’incredulità: “Davvero tutto questo succede grazie a me?”.
La risposta è no.
E allora torniamo a quegli alunni, non tutti svogliati, non tutti addormentati e non tutti stanchi “perché è l’ultima ora”.
Gli studenti collaborativi, che ascoltano e rispondono con il loro interesse spontaneo, fanno domande e propongono attività.
Ti chiedono “Perché?” e ti spingono ad approfondire, a non accontentarti di ciò che sai già.
La noia soccombe alla passione, che genera motivazione e ti spinge a fare meglio, a stare meglio.
E voi come combattete la noia sul lavoro?