SmaniaSchool
Secondaria 2° Grado
Superiori 14-19 anni
Chiara Resenterra
Valentina Finocchiaro
𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥 𝐛𝐲 𝐕𝐚𝐥𝐞
𝐅𝐔𝐎𝐑𝐈𝐂𝐎𝐌𝐏𝐈𝐓𝐈
𝑄𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑒𝑠𝑡𝑎𝑡𝑒 𝑝𝑢𝑜̀ 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑢𝑛 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑚𝑎 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑝𝑎𝑠𝑠𝑜 𝑒 𝑟𝑒𝑐𝑢𝑝𝑒𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑒𝑡𝑒𝑛𝑧𝑒 𝑑𝑖 𝑣𝑖𝑡𝑎, 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑒 𝑑𝑢𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑙𝑢𝑛𝑔𝑜 𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑠𝑐𝑜𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑜.
𝐶𝑜𝑛 𝑙’𝑎𝑢𝑔𝑢𝑟𝑖𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑙 𝑝𝑟𝑜𝑠𝑠𝑖𝑚𝑜 𝑐𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑚𝑒𝑡𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑟𝑒𝑐𝑢𝑝𝑒𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑢𝑛 𝑝𝑜’ 𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑟𝑚𝑎𝑙𝑖𝑡𝑎̀…𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑖𝑡𝑖 𝑒𝑠𝑡𝑖𝑣𝑖, 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑚𝑒.
Ma tu li dai i compiti estivi?
Dilemma dei docenti verso la metà di maggio, terrore dei ragazzi alla fine di settembre.
Il senso dei compiti estivi dal punto di vista del docente è perfettamente allineato con quanto fatto durante l’anno; per il desiderio di far ripassare e al tempo stesso consolidare quanto svolto, per approfondire e ampliare gli orizzonti e gli interessi dei ragazzi e ancora per riflettere serenamente sull’esperienza vissuta nei mesi impegnati dalla scuola.
Questo è particolarmente valido, ovviamente, per chi come me insegna italiano o per le materie umanistiche, perché si può permettere ai ragazzi di esercitarsi con scrittura e grammatica e al contempo interessarsi a temi di particolare interesse o attualità e creare anche collegamenti con le altre materie studiate.
Mi piacciono i compiti che permettono agli alunni di esprimersi, di parlare di sé, di quanto hanno appreso, di quanto sono cambiati durante l’anno o nel corso dell’estate, dei luoghi che hanno visitato, delle relazioni che hanno costruito e di quelle che hanno riscoperto.
Di quanto hanno capito di sé stessi nel tempo che hanno avuto a disposizione.
Tanto? Poco? Poco importa se ben speso, tanto o poco che sia, il tempo fa sempre bene a tutti.
Spesso si sente dire che i compiti vanno dati solo se poi vengono corretti.
Non credo che questo sia il vero punto.
I compiti andrebbero dati se poi vanno fatti, in prima persona e nei tempi giusti.
I compiti supportati da aiuti esterni fin troppo evidenti, quelli svolti tutti a giugno o nelle prime due settimane di settembre, quelli copiati dai compagni o da internet -perché diciamocelo, lo sappiamo anche noi!!- diventano inutili anche se poi vengono corretti.
Anzi, permettetemi di dire che dal punto di vista di una persona che investe il suo tempo in una correzione fatta per bene, diventa molto frustrante dover correggere chissàchi che ha scritto chissàcosa su un sito a caso.
Dire che i compiti vanno dati solo se corretti, delega ancora una volta la responsabilità del lavoro al docente, quando invece sono gli alunni e specialmente in mancanza del controllo costante tipico dei mesi di scuola, a dover rafforzare la propria autonomia.
Dall’inglese la mia idea del fuoricompito, o outwork (e non workout), in opposizione rispetto al termine homework.
Molto simile al compito di realtà certo, ma questo ha in sé come obiettivo il raggiungimento finale di una competenza scolastica.
Il fuoricompito vuole intendersi come il recupero di una parte di strategie sociali, di problem solving, di crescita e di maturazione, azzerate quasi del tutto dai mesi passati in casa e fuori da contesti sociali e culturali tipici della normalità.
Unico obiettivo è quello di concedere ai ragazzi un’estate viva, per poi procedere con un vero, nuovo inizio a settembre, dove alfabetizzazione e scolarizzazione di base (sì, anche alle superiori) saranno per me imperativo per procedere serenamente.
Questi i fuoricompiti, secondo me:
- Togliere la mascherina (all’aperto, per ora)
- Uscire dalla propria stanza e dalla propria casa
- Abbandonare cellulari, tablet e PC
- Socializzare con i propri amici
- Fare sport all’aria aperta
- Andare via, dalla propria casa, dalla propria strada, dal proprio paese, dalla propria regione e per chi ne ha la possibilità viaggiare: scoprire posti nuovi, persone, culture e usanze.
Insomma, il fuoricompito di quest’estate è tornare a vivere nel Mondo..
Articolo e foto di 2021 © Valentina Finocchiaro 27 luglio 2021
𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥 𝐛𝐲 𝐂𝐡𝐢𝐚𝐫𝐚
𝐀𝐃 𝐎𝐆𝐍𝐔𝐍𝐎 𝐈𝐋 𝐒𝐔𝐎 𝐓𝐄𝐌𝐏𝐎.
(𝐃𝐄𝐋 𝐏𝐄𝐑𝐂𝐇𝐄’ 𝐋𝐀 𝐁𝐎𝐂𝐂𝐈𝐀𝐓𝐔𝐑𝐀 𝐍𝐎𝐍 𝐏𝐔𝐎’ 𝐄𝐒𝐒𝐄𝐑𝐄 𝐂𝐎𝐍𝐒𝐈𝐃𝐄𝐑𝐀𝐓𝐀 𝐔𝐍 𝐅𝐀𝐋𝐋𝐈𝐌𝐄𝐍𝐓𝐎)
𝑀𝑎𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑛𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑢𝑙𝑡𝑖𝑚𝑖 𝑑𝑢𝑒 𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑠𝑖 𝑒̀ 𝑎𝑐𝑐𝑒𝑠𝑎 𝑙𝑎 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑢𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑢𝑙 𝑑𝑒𝑙𝑖𝑐𝑎𝑡𝑜 𝑡𝑒𝑚𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 “𝑏𝑜𝑐𝑐𝑖𝑎𝑡𝑢𝑟𝑒” 𝑒𝑑 “𝑒𝑠𝑎𝑚𝑖 𝑎 𝑠𝑒𝑡𝑡𝑒𝑚𝑏𝑟𝑒”. 𝐶𝑟𝑒𝑑𝑜 𝑑𝑖 𝑎𝑣𝑒𝑟 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑙𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑢𝑛𝑞𝑢𝑒 (𝑒 𝑑𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑑𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑢𝑛𝑞𝑢𝑒 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎) 𝑠𝑢𝑖 𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑎𝑙𝑖 𝑒 𝑠𝑢𝑖 𝑠𝑜𝑐𝑖𝑎𝑙: 𝑑𝑎𝑙 “𝑇𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑚𝑜𝑠𝑠𝑖 𝑐𝑎𝑢𝑠𝑎 𝐶𝑜𝑣𝑖𝑑19”, 𝑎𝑙 “𝐼𝑜 𝑣𝑖 𝑝𝑎𝑔𝑜, 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 𝑚𝑖𝑜 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑣𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑚𝑜𝑠𝑠𝑜”, 𝑎𝑖 “𝑁𝑜𝑛 𝑚𝑒𝑟𝑖𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑟𝑒 𝑙’𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑇𝑖𝑧𝑖𝑜 𝑛𝑜𝑛 ℎ𝑎 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑛𝑢𝑙𝑙𝑎”, “𝑀𝑎 𝑠𝑖̀, 𝑝𝑜𝑣𝑒𝑟𝑖𝑛𝑜, 𝑔𝑙𝑖 𝑒̀ 𝑚𝑜𝑟𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝑔𝑎𝑡𝑡𝑜, 𝑒̀ 𝑖𝑛 𝑑𝑒𝑝𝑟𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑚𝑎𝑛𝑑𝑖𝑎𝑚𝑜𝑙𝑜 𝑖𝑛 𝑡𝑒𝑟𝑧𝑎”, 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑙𝑢𝑑𝑒𝑟𝑒: “𝐺𝑢𝑎𝑟𝑑𝑎, 𝑝𝑢𝑟 𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑎𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑎 𝑠𝑝𝑒𝑑𝑖𝑎𝑚𝑜𝑙𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑡𝑟𝑖𝑒𝑛𝑛𝑖𝑜 𝑒 𝑠𝑎𝑟𝑎̀ 𝑢𝑛 𝑝𝑟𝑜𝑏𝑙𝑒𝑚𝑎 𝑑𝑖 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑖”.
𝐸𝑏𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑠𝑖̀, 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑖 𝑑𝑢𝑒 𝑎𝑛𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑎, 𝑡𝑟𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎, 𝑎𝑠𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎, 𝐷𝐴𝐷, 𝐷𝐷𝐼 𝑒 𝑐ℎ𝑖 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑛𝑒 ℎ𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑛𝑒 𝑚𝑒𝑡𝑡𝑎 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑚𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑎 𝑑𝑢𝑟𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑣𝑎 𝑒𝑑 𝑒̀ 𝑛𝑒𝑐𝑒𝑠𝑠𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑖𝑛 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑡𝑎̀, 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑒𝑟𝑖𝑎 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑙𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑑𝑖 𝑑𝑜𝑐𝑒𝑛𝑡𝑖, 𝑠𝑢 𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑡𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑔𝑛𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑒𝑟𝑐𝑖 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑙𝑒 𝑟𝑒𝑠𝑝𝑜𝑛𝑠𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎̀ 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑠𝑐𝑒𝑙𝑡𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑜𝑝𝑒𝑟𝑖𝑎𝑚𝑜. 𝐵𝑜𝑐𝑐𝑖𝑎𝑡𝑢𝑟𝑒, 𝑒𝑠𝑎𝑚𝑖 𝑎 𝑠𝑒𝑡𝑡𝑒𝑚𝑏𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑟𝑒𝑠𝑖.
𝐼𝑜 𝑖𝑛 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑖𝑠 ℎ𝑜 𝑎𝑣𝑢𝑡𝑜 𝑏𝑖𝑠𝑜𝑔𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑙𝑒𝑔𝑔𝑒𝑟𝑒 𝑢𝑛 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑛𝑢𝑜𝑣𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑒̀ 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑎 𝑙𝑎 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑎 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡’𝑎𝑛𝑛𝑜, 𝑝𝑒𝑟 𝑐ℎ𝑖𝑎𝑟𝑖𝑟𝑚𝑖 𝑙𝑒 𝑖𝑑𝑒𝑒 𝑒 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑟𝑒. 𝑃𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́, 𝑒 𝑑𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑟𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑣𝑖𝑛𝑡𝑎, 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑑𝑎 𝑢𝑛 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑖𝑒𝑟𝑜 𝑝𝑒𝑑𝑎𝑔𝑜𝑔𝑖𝑐𝑜 𝑠𝑒𝑟𝑖𝑜 𝑒 𝑐𝑜𝑒𝑟𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑢𝑜̀ 𝑑𝑒𝑟𝑖𝑣𝑎𝑟𝑒 𝑝𝑜𝑖 𝑙’𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑖𝑙 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑚𝑜𝑑𝑜 𝑑𝑖 𝑎𝑔𝑖𝑟𝑒 𝑒 𝑚𝑢𝑜𝑣𝑒𝑟𝑐𝑖 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑡𝑎̀.
𝐶𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒𝑟𝑜̀ 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 𝑑𝑖 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑜𝑟𝑑𝑖𝑛𝑎𝑡𝑎 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑖𝑏𝑖𝑙𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑚𝑖𝑒 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑒 𝑎𝑝𝑒𝑟𝑡𝑎 𝑎𝑙 𝑑𝑖𝑏𝑎𝑡𝑡𝑖𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑒 𝑝𝑢𝑜̀ 𝑠𝑐𝑎𝑡𝑢𝑟𝑖𝑟𝑒, 𝑑𝑖𝑣𝑖𝑑𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑙’𝑎𝑟𝑡𝑖𝑐𝑜𝑙𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑖.
Noi insegnanti.
Da docente, credo che la scuola abbia un grandissimo difetto: il voler omologare a tutti i costi le persone. Il fatto che si debba conseguire in un tempo prestabilito obiettivi e competenze già di per sé, se ci fermiamo a riflettere, non ha senso, a maggior ragione nell’età dello sviluppo. Quindi, finché non ci si renderà veramente conto che la valorizzazione e l’accettazione della diversità è in primis un dato di fatto, ogni discussione sarà per natura, passatemi il termine, incasinata. E no, non sto parlando di inclusione, BES, DES, DVA, ecc… sto parlando di “comuni” adolescenti e “comuni” situazioni familiari.
La pandemia ha slatentizzato definitivamente che questo sistema bianco/nero, dentro/fuori non funziona più nella società odierna. Può spaventarci okay, ma la verità è che dobbiamo farcene una ragione e “sistemare” alcune cose partendo da qui. E dal dialogo continuo e ininterrotto con gli adolescenti e con i loro genitori.
Devo essere sincera, io rientro in quella categoria per cui tutte le volte che devo dare un’insufficienza mi si stringe il cuore: conosco le storie di ogni mio singolo ragazzo e nella maggior parte dei casi so anche cosa li porta (o meglio) non li porta a studiare o svolgere i compiti, in generale a conseguire al termine di ogni anno le competenze. Quest’anno a maggior ragione. Ed è qui che ho avuto l’intuizione: ma se invece che di anni si incominciasse a parlare di percorsi? Il diploma è l’obiettivo, ma come ci si arriva a questo obiettivo, il tempo che ci si impiega e il lavoro nelle singole discipline, può e deve forse essere più variegato.
Quando e perché rimandare/ bocciare (la scuola delle competenze?)
Ora, io sono convinta, che esistano dei momenti più favorevoli per bocciare.
In prima superiore, più che di vera e propria bocciatura dovremmo parlare di riorientamento: ci può stare che un ragazzo senta che un determinato tipo di scuola con relative materie non gli appartenga? Quindi perché uccidersi l’estate con un recupero affannoso di alcuni insegnamenti quando si può tranquillamente incominciare di nuovo dall’inizio un percorso? “E ma è più grande degli altri!”… ma stiamo scherzando? A parte che è più grande degli altri allora anche chi è nato a gennaio rispetto ad un nato a dicembre, ma di per sé, un’argomentazione di questo tipo –diffusissima, fidatevi- è imbarazzante. “Non voglio che perda l’anno”. Perché? Quindi facciamogli perdere il sonno…
Seconda superiore: ecco, in questo caso la bocciatura ha un senso per coloro che non hanno raggiunto, per i più svariati motivi che andrebbero analizzati e letti insieme allo studente e alla famiglia, gli obiettivi e le competenze attese. Che senso ha iniziare un triennio quando non hai raggiunto un metodo di studio, un minimo di capacità di scrittura ed esposizione orale, un’organizzazione del tuo tempo… e potrei andare avanti, per non parlare di alcune competenze matematiche e in lingua straniera per cui il poveraccio di turno parte già svantaggiato. Okay, gli diamo i debiti formativi. Ma il debito formativo –che già debito formativo a me suona come un ossimoro- lo puoi dare in una, due materie e alla luce sacrosanta che ci possono essere difficoltà nell’apprendimento di alcune discipline che procedono, come dico io, a cascata.
E ribadisco, è un giusto diritto che una persona possa metterci 12 mesi (eh sì, grossa scoperta, un anno è composto da 12 mesi) invece di 10 per consolidare alcuni apprendimenti. Che male c’è?
Stesso discorso vale per la quarta superiore.
La quinta è l’anno della Maturità. Ora, se si è lavorato bene nella costruzione del percorso precedente, in quinta non si boccia. Fine della questione: i miracoli non esistono, non è che improvvisamente si possono recuperare, consolidare, esprimere al meglio, competenze e conoscenze andate smarrite per anni o appiccicate come post it raffazzonati in giro. “E ma vogliamo dargli un’ulteriore opportunità…magari se si impegna (e dentro di me io sto già rabbrividendo) gli ultimi due mesi, ce la può fare!”
Ce la può fare a fare cosa? No dai, perché diciamocelo come insegnanti, lo sappiamo benissimo che non brillerà. Semmai avrà un barlume di conoscenza su quattro cose che poi dimenticherà proporzionalmente a come le ha acquisite (sicuramente non competenze, quelle non le tiri insieme in quattro e quattro otto, e allora non chiamiamola nemmeno scuola delle competenze, a meno che non vogliamo svilupparne due in particolar modo: impara a copiare bene, impara ad arrangiarti, e fai in modo che nella tua vita il fine giustifichi sempre i mezzi, anche se non sai chi ha detto questa frase).
Le giuste modalità di comunicazione
Se siete arrivati a leggere fino a questo punto vi sarà chiaro che nella mia visione, la bocciatura/ “debito formativo”, è tutto fuorché una punizione, è bensì un’opportunità che si dà allo studente di riprendersi in mano il proprio percorso. Ovviamente, sta a noi adulti comunicare che non è una punizione! E non è nemmeno un abbandono. Ma questa cosa va spiegata bene. E non solo se ne deve parlare, ma bisogna anche trovare le strategie migliori per fare in modo che l’anno successivo sia un anno in cui raggiungere i traguardi che non sono ancora stati tagliati. Vuol dire riguardare con il ragazzo il proprio percorso e riflettere insieme sul da farsi. Insegnanti, genitori inclusi. Questa triade che deve imparare a comunicare costruendo in positivo, e non affondando coltelli nel negativo. E’ trovare la causa senza fermarsi al sintomo. Oppure è ammettere che serviva solo più tempo. (E non smetterò mai di ripeterlo…che male c’è?)
E’ costruire insieme.
Ma è il paradigma che va cambiato, l’assunto di base: che vali come persona solo se “buona la prima”. In pratica, come adulti passiamo il tempo a dire ai ragazzi che si apprende superando ostacoli o dagli errori, e poi, al primo grosso ostacolo che incontrano, il messaggio che tra le righe passa, ma nemmeno troppo tra le righe, è che se vieni bocciato o rimandato sei un mezzo fallito e rendi tanto tanto tristi mamma e papà. (Perché la sofferenza interna precedente e suppletiva indotta al ragazzo, in quel preciso momento scompare, si sfuma o staglia sullo sfondo).
Promozione, esame a settembre e bocciatura non sono faccende che vanno prese con superficialità. Non possono essere liquidate in uno scontro in consiglio di classe nell’ultimo scrutinio, o in una guerra fredda o aperta tra scuola e famiglia: devono essere invece oggetto continuo di dialogo dove ognuno prende in carico il suo pezzettino. Perché a 16 anni non si può finire dallo psicologo a causa della scuola. (O giù da un balcone. Eh sì, può succedere anche questo.)
PS. Molto spesso, come pedagogista, ho consigliato la bocciatura. Molto spesso, le persone che da adulte ho visto più realizzate e serene, sono passate da esami a settembre e bocciature, senza che le famiglie –e gli insegnanti- rendessero il fatto una tragedia inenarrabile.
Articolo e foto di 2021 © Chiara Resenterra 29 giugno 2021
𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥 𝐛𝐲 𝐂𝐡𝐢𝐚𝐫𝐚
𝐐𝐔𝐀𝐍𝐃𝐎
𝐋𝐀 𝐕𝐀𝐋𝐔𝐓𝐀𝐙𝐈𝐎𝐍𝐄 𝐄’ 𝐔𝐓𝐈𝐋𝐄?
Resenterra
𝑆𝑒 𝑐’𝑒̀ 𝑢𝑛 𝑡𝑒𝑚𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑚𝑖 ℎ𝑎 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑚𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑖𝑛 𝑝𝑟𝑜𝑓𝑜𝑛𝑑𝑎 𝑐𝑟𝑖𝑠𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑑𝑜𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑒̀ 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑙𝑢𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒. 𝑃𝑒𝑟 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑙𝑎 𝑣𝑎𝑙𝑢𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑖𝑐𝑎 𝑡𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑐𝑎𝑟𝑎 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑎 𝑖𝑡𝑎𝑙𝑖𝑎𝑛𝑎. 𝑆𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑐𝑒𝑟𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝑎𝑠𝑠𝑜𝑙𝑢𝑡𝑎 𝑖𝑛𝑢𝑡𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎̀ 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑒 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑜 𝑔𝑟𝑎𝑑𝑜, 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟𝑒 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑠𝑐𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑙 𝑝𝑟𝑜𝑏𝑙𝑒𝑚𝑎 𝑠𝑖 𝑓𝑎 𝑠𝑝𝑖𝑛𝑜𝑠𝑜. 𝑃𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑠𝑖 𝑣𝑎 𝑖𝑛𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑎𝑑 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑒𝑟𝑖𝑒 𝑑𝑖 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑟𝑜𝑔𝑎𝑡𝑖𝑣𝑖. 𝐼𝑙 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑜 𝑒̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑒 𝑓𝑜𝑠𝑠𝑒 “𝑎𝑏𝑜𝑙𝑖𝑡𝑎” 𝑛𝑒𝑖 𝑔𝑟𝑎𝑑𝑖 𝑑𝑖 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑐𝑒𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑏𝑎𝑏𝑖𝑙𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑜𝑡𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑟𝑒𝑖𝑚𝑝𝑜𝑠𝑡𝑎𝑡𝑎 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑎 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟𝑒, 𝑚𝑎 𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑡𝑎̀ 𝑒̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑣𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑣𝑖𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑙𝑒𝑔𝑖𝑠𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑐𝑜𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑎 𝑎𝑡𝑡𝑢𝑎𝑙𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑣𝑒𝑑𝑒 𝑢𝑛 𝑣𝑜𝑡𝑜, 𝑢𝑛 𝑛𝑢𝑚𝑒𝑟𝑜, 𝑢𝑛 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑒𝑔𝑔𝑖𝑜 𝑓𝑖𝑛𝑎𝑙𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑎 𝑏𝑟𝑒𝑣𝑒, 𝑐𝑜𝑛 𝑔𝑙𝑖 𝐸𝑠𝑎𝑚𝑖 𝑑𝑖 𝑆𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜, 𝑎 𝑚𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜𝑟 𝑟𝑎𝑔𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑒̀ 𝑜𝑔𝑔𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑖. 𝐼𝑙 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑒̀ 𝑐ℎ𝑒 𝑒̀ 𝑙𝑒𝑔𝑖𝑡𝑡𝑖𝑚𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑖 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑖 𝑎𝑏𝑏𝑖𝑎𝑛𝑜 𝑑𝑒𝑖 𝑓𝑒𝑒𝑑𝑏𝑎𝑐𝑘 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑡𝑖𝑣𝑖 𝑎𝑙 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑜𝑝𝑒𝑟𝑎𝑡𝑜. 𝑉𝑎𝑙𝑢𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑛𝑒 𝑖𝑛𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑒𝑟𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜. 𝑇𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑒̀ 𝑣𝑎𝑙𝑢𝑡𝑎𝑡𝑜: 𝑡𝑟𝑖𝑝𝑎𝑑𝑣𝑖𝑠𝑜𝑟, 𝑙𝑒 𝑟𝑒𝑐𝑒𝑛𝑠𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑓𝑖𝑙𝑚, 𝑙𝑖𝑏𝑟𝑜… 𝑙’𝑎𝑛𝑑𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑎𝑧𝑖𝑒𝑛𝑑𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑝𝑟𝑒𝑚𝑖, 𝑖𝑛𝑠𝑜𝑚𝑚𝑎, 𝑒̀ 𝑢𝑛 𝑑𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑙 𝑚𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑣𝑎𝑙𝑢𝑡𝑎𝑡𝑖𝑣𝑜 𝑒𝑠𝑖𝑠𝑡𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑣𝑖𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑜𝑔𝑛𝑢𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑖, 𝑒 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑔𝑖𝑜𝑖𝑎 𝑜 𝑓𝑟𝑢𝑠𝑡𝑟𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖. 𝑇𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑒̀ 𝑠𝑜𝑔𝑔𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑒 𝑜𝑔𝑔𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑣𝑎𝑙𝑢𝑡𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 𝑖𝑙 𝑝𝑟𝑜𝑏𝑙𝑒𝑚𝑎 𝑠𝑖 𝑠𝑝𝑜𝑠𝑡𝑎 𝑠𝑢 𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑣𝑎𝑙𝑢𝑡𝑎𝑟𝑒, 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑖 𝑐𝑟𝑖𝑡𝑒𝑟𝑖 𝑢𝑡𝑖𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑟𝑒, 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑖 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑎𝑛𝑜 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑎 𝑚𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑒 𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑑𝑖𝑠𝑡𝑟𝑢𝑔𝑔𝑒𝑟𝑒 𝑖𝑙 𝑝𝑟𝑜𝑐𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑟𝑒𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑞𝑢𝑎𝑠𝑖 𝑎𝑑𝑢𝑙𝑡𝑜.
[𝑎ℎ, 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑛𝑐𝑖𝑠𝑜: 𝑖𝑙 𝑣𝑜𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑚𝑎𝑡𝑢𝑟𝑖𝑡𝑎̀ 𝑒̀ 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑖𝑛𝑢𝑡𝑖𝑙𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎 𝑢𝑛𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖𝑡𝑎𝑟𝑖𝑎 𝑒 𝑝𝑟𝑜𝑓𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑎𝑙𝑒…].
La valutazione non è un nodo a sé stante del processo di apprendimento, ma un passaggio che dev’essere coerente con le strategie di insegnamento e la metodologia didattica che l’insegnante ha adottato con i propri alunni. Di conseguenza, la valutazione non è un momento oggettivo. La valutazione nulla ha a che vedere con l’oggettività, ma è, strettamente connessa alla soggettività del professore di turno. Possiamo cercare tutti i criteri oggettivi di questo mondo, ma resta una libera interpretazione della prova che lo studente fa, e ancora di più, resta il riflesso di quanto siamo stati in grado di far amare la nostra materia agli studenti. Ci avete mai fatto caso? La valutazione va quasi sempre di pari passo a quanto un professore riesce a “conquistare” i suoi studenti. Piace inglese, perché amavamo la professoressa di inglese, piace la letteratura perché restavamo affascinati dalla capacità del docente di raccontarci gli autori, piace la matematica… ah no, la matematica piace comunque a pochi (scherzo ovviamente, ma nemmeno molto… è seriamente faticoso rendere empatica la matematica anche per il miglior professore!).
E’ che l’apprendimento è una questione emotiva, e quindi sono di nuovo da capo. Cosa valuto? Io alla fine ho deciso di valutare, spiegando le motivazioni, tutto quello che i ragazzi svolgono: oltre ai momenti di verifica, elargisco voti sui compiti, sulle presentazioni che mi portano, sui progetti che creano, sulle competenze che sviluppano. E dichiaro che il mio occhio va a leggere infinite sfumature, a cui cerco di attribuire un numero, ma che loro, loro non sono quel numero. Sono la sommatoria di mille cose e il mio compito potrebbe apparire ingrato, se non fosse che do ragione, spiegazione del numero che attribuisco. E così mi succede che ho studenti che non paghi di un 8, a fronte della spiegazione della valutazione, mi chiedano un colloquio per “migliorare” il voto… ma io non lo leggo come migliorare il voto, ma migliorare la loro capacità di andare in profondità su un argomento che magari li ha particolarmente coinvolti.
Ad alcuni ragazzi, al di là di tutto, non piace molto la mia materia e ci sta. Io li sprono solo a raggiungere le competenze di base, soprattutto in quarta e quinta, a fare già delle scelte su dove investire maggiormente il loro tempo. Io non credo che uno studente sia mediocre perché decide di passare le ore a studiare e approfondire le lingue straniere e si accontenta di raggiungere conoscenze e competenze in fisica o scienze.
Io credo che questa sia la maturità. La scelta consapevole. In fondo la scuola a questo dovrebbe mirare: farti capire qual è quella parte di te per cui spenderesti tanto tanto tempo aldilà dello stipendio, solo per il fatto che ti piace, che ne sei innamorato.
Ma una riflessione va fatta anche sul biennio della scuola superiore. E qui lo dico e non lo nego. Le mie prime verifiche sono veramente tutte molto facili, perché dato che mi trovo davanti molto spesso ragazzi che vivono per la valutazione perché sono stati abituati così dal sistema scolastico e studiano (o non studiano) solo per quel cavolo di numero, che arrivano spesso demotivati e mi dicono “tanto io non capisco”, allora il mio primo compito è quello di far loro riacquistare l’autostima e disinnescare un meccanismo perverso anche all’opposto: voti alti, studio mnemonico, ma un’assoluta mancanza di amore che emerge poi nella rielaborazione critica di una qualsiasi prova di competenza. Io non voglio la trama di un film, so benissimo che possono leggerla e copiarla da internet. Io non voglio la trama di un libro… me la leggo anche io. Io voglio la frase che li ha colpiti, la scena che li ha incantati, quello che hanno visto loro in relazione alla mia materia di studio. Pretendo anche che non sia “buttata” lì in qualche modo. Ma lo schema organizzativo, lo strumento, in primis lo devo fornire io.
Ho visto cose impensate lavorando in questo modo. Davvero. Ho visto ragazze rifiorire e fregarsene del voto, soprattutto quando tutto ciò è concordato con le famiglie. Quando esorto i genitori a non chiedere “quanto hai preso?” ma, “di cosa hai parlato oggi con la profe?”
Nel tempo, lavorando così, ho un po’ fatto pace con la valutazione complessiva. Poi è ovvio che attribuisco punteggi e mi creo scale di voto, ma le ho impostate a mo’ di questionari autodescrittivi. Ogni aspetto ha una scala da 0 a 5 punti, con nota a margine mia, sul mio prezioso quaderno, che mi orienta sui passi che devo ancora far compiere. La valutazione è quindi, alla fine, solo un’indicazione della strada che stanno percorrendo. Un video gioco a punteggio. Dove alla fine tutti, con i loro tempi, con le loro risorse, con le loro complessità, possono raggiungere la fine. Ciò che m’importa veramente è che non abbandonino il gioco..
Articolo e foto di 2021 © Chiara Resenterra 22 giugno 2021
𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥 𝐛𝐲 𝐕𝐚𝐥𝐞
𝐐𝐔𝐀𝐍𝐃𝐎 𝐔𝐍 𝐏𝐑𝐎𝐆𝐄𝐓𝐓𝐎 𝐅𝐀𝐋𝐋𝐈𝐒𝐂𝐄
𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑖 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑟𝑢𝑖𝑠𝑐𝑒 𝑢𝑛 𝑏𝑢𝑜𝑛 𝑝𝑟𝑜𝑔𝑒𝑡𝑡𝑜?
𝑃𝑎𝑟𝑡𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑒𝑡𝑒𝑛𝑧𝑒 𝑒 𝑑𝑎𝑔𝑙𝑖 𝑜𝑏𝑖𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖.
𝐼 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑒𝑛𝑢𝑡𝑖 𝑒 𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑟𝑔𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑢𝑝𝑝𝑜𝑟𝑡𝑜, 𝑝𝑒𝑟 𝑠𝑐𝑎𝑡𝑒𝑛𝑎𝑟𝑒 𝑙’𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑒 𝑐𝑜𝑖𝑛𝑣𝑜𝑙𝑔𝑒𝑟𝑒 𝑔𝑙𝑖 𝑠𝑡𝑢𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑝𝑒𝑟 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑔𝑛𝑎𝑟𝑒 𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑒, 𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑜𝑠𝑐𝑒𝑟𝑒, 𝑎𝑑 𝑎𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑖.
𝐼𝑛𝑡𝑒𝑟𝑒𝑠𝑠𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑙𝑎 “𝑑𝑖𝑑𝑎𝑡𝑡𝑖𝑐𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎” 𝑚𝑎 𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑠𝑢𝑐𝑐𝑒𝑑𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑢𝑛 𝑝𝑟𝑜𝑔𝑒𝑡𝑡𝑜, 𝑛𝑜𝑛𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖, 𝑓𝑎𝑙𝑙𝑖𝑠𝑐𝑒?
Dopo un anno di didattica a distanza siamo stanchi, privi di energia e annoiati, tutti.
Come andare avanti?
Dove trovare le energie per rinnovarsi, per creare nuovi progetti, per affrontare nuovi argomenti, senza ottenere come risposta il silenzio a cui un po’ tutti i coinvolti nella DAD sono oramai avvezzi?
Ma facciamo un passo indietro, perché la questione riguarda proprio l’interesse dei ragazzi, che sembra essersi spento, come un fuoco sulla sabbia del mattino dopo un falò estivo.
A cosa ci interessiamo come persone “naturalmente”, senza che ci sia qualcuno che debba continuamente spronarci o inventarsi nuovi metodi, spesso contenenti minacce di vario tipo, per farci partecipare ad un’attività?
Potrà sembrare banale, ma i nostri alunni, grandi o piccoli che siano, si trovano davvero coinvolti quando un argomento parla di LORO, quando li riguarda direttamente.
Quante volte capita, e specialmente con la DAD che se non si sta parlando di una questione che li riguarda in prima persona spariscano istantaneamente? Al contrario, quando si parla di loro, per magia le telecamere funzionano e i microfoni non gracchiano più! Sconvolgente.
Quando una cosa non li riguarda, semplicemente per loro non è degna di nota.
Altrettanto succede, nella situazione opposta, quando hanno qualcosa da comunicare che li riguarda: pretendono attenzione immediata, interrompendo qualsiasi discorso o spiegazione.
Non perché quanto abbiano da dire sia importante, ma semplicemente perché li tocca da vicino.
Quante volte capita a noi docenti di sperare in una bella domanda sensata e pertinente, vedendo una mano alzata, che poi si tramuta inevitabilmente in: “Prof, posso andare in bagno?”
Risposta:
“E’ urgente?”
“No.”
Incomprensibile quindi l’interruzione, se non per il fatto che si tratta di un loro bisogno.
Attenzione: non immediato ma LORO.
Per questo i temi dei progetti che si propongono agli adolescenti devono sempre avere risvolti con ricadute non solo nella mera didattica: “impariamo a contare per risolvere un problema, o impariamo a scrivere per comporre un tema” ma “imparo a contare perché se no il cassiere mi “frega” e non me ne accorgo, imparo a scrivere per inviare un messaggio d’amore alla mia morosa o per scrivere una lettera alla nonna che vive lontano”.
Allora dovremmo chiederci, come facciamo a far interessare gli alunni a un qualsiasi argomento?
Dobbiamo sceglierlo con cura, e fare in modo che permetta loro non solo di apprendere meramente dei contenuti, che possono essere i più vari e sono necessari per attirare la loro attenzione e coinvolgerli, ma di sviluppare competenze.
Competenze di vita, s’intende.
Impareranno così che ci si può mettere nei panni degli altri, che un’opera classica può diventare teatro, che si può imparare giocando e che intervistare i compagni può essere un modo per conoscerli e al contempo addentrarsi nell’attualità.
Impareranno a farsi le giuste domande, risolvere problemi, trovare la propria opinione e sostenerla, rispettare gli altri e l’ambiente, pretendere uguaglianza e giustizia, difendere i più deboli e via dicendo.
C’è poi da considerare che nonostante tutto questo, l’impegno e lo sforzo profusi nel coinvolgere i ragazzi, nell’avvicinarli creando un dialogo con loro e con i genitori, nel creare un solido gruppo di docenti e una generale comunione di intenti, un progetto può fallire.
E’ durissima prenderne atto, ancora di più arrendersi davvero.
A parole ci siamo stancati e stufati mille volte e ancora altre mille abbiamo smesso di fare, di pensare, di creare o di “star dietro” alle esigenze di tutti.
E tutte le volte, il nostro comportamento ha detto esattamente il contrario: che ci teniamo.
Teniamo talmente tanto a questi ragazzi che non contano la fatica, le mattine e le domeniche, le sere e le nottate passate a rispondere, a correggere, a creare collaborazioni e nuovi progetti oppure semplicemente a pensare incessantemente a quello che ci dicono, perché quello che conta per noi sono solo loro: I RAGAZZI.
Vorremmo la loro attenzione, la loro considerazione, il loro pensiero almeno per un minuto, quando inviano i compiti con il nome errato o i file nel formato sbagliato, quando studiano ascoltando la musica, quando rimangono in DAD per “un disguido”, quando devono rispettare una scadenza, quando escono da scuola così, senza avvisare nessuno.
Eppure non è questo che gli abbiamo insegnato, non è l’esempio che gli abbiamo trasmesso.
Di chi è la colpa?
Io sinceramente proprio non lo so, ma tutto ha remato contro di noi e contro di loro in questo anno scolastico.
Forse ora che manca così poco alla fine della scuola possiamo fare quello che facciamo sempre; perché noi docenti siamo un po’ come il buon Pip e le sue Grandi Speranze*: quando non sappiamo più cosa fare, aspettiamo un nuovo anno, per ricominciare tutto daccapo.
*Charles Dickens, “Grandi Speranze”, ed. Garzanti, 1999.
Articolo e foto di 2021 © Valentina Finocchiaro 25 maggio 2021
𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥 𝐛𝐲 𝐂𝐡𝐢𝐚𝐫𝐚
𝐋𝐀 𝐒𝐅𝐈𝐃𝐀 𝐃𝐄𝐋𝐋𝐀 𝐒𝐂𝐔𝐎𝐋𝐀: 𝐅𝐎𝐑𝐌𝐀𝐑𝐄 𝐏𝐄𝐑𝐒𝐎𝐍𝐄 𝐂𝐎𝐌𝐏𝐄𝐓𝐄𝐍𝐓𝐈 𝐄 𝐍𝐎𝐍 𝐂𝐎𝐌𝐏𝐄𝐓𝐈𝐓𝐈𝐕𝐄
𝘕𝘦𝘭𝘭'𝘶𝘭𝘵𝘪𝘮𝘰 𝘷𝘦𝘯𝘵𝘦𝘯𝘯𝘪𝘰 𝘭𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘰𝘭𝘢 𝘊𝘖𝘔𝘗𝘌𝘛𝘌𝘕𝘡𝘈 𝘦̀ 𝘴𝘵𝘢𝘵𝘢 𝘳𝘪𝘱𝘦𝘵𝘶𝘵𝘢 𝘤𝘰𝘴𝘪̀ 𝘵𝘢𝘯𝘵𝘦 𝘷𝘰𝘭𝘵𝘦 𝘯𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘴𝘤𝘶𝘰𝘭𝘦 𝘪𝘵𝘢𝘭𝘪𝘢𝘯𝘦 𝘥𝘢 𝘦𝘴𝘴𝘦𝘳𝘴𝘪 𝘲𝘶𝘢𝘴𝘪 𝘴𝘷𝘶𝘰𝘵𝘢𝘵𝘢 𝘥𝘪 𝘴𝘪𝘨𝘯𝘪𝘧𝘪𝘤𝘢𝘵𝘰, 𝘱𝘦𝘳𝘤𝘩𝘦́, 𝘩𝘰 𝘱𝘰𝘵𝘶𝘵𝘰 𝘯𝘰𝘵𝘢𝘳𝘦, 𝘮𝘰𝘭𝘵𝘰 𝘴𝘱𝘦𝘴𝘴𝘰 𝘦̀ 𝘴𝘵𝘢𝘵𝘢 𝘱𝘦𝘳 𝘴𝘦𝘮𝘱𝘭𝘪𝘧𝘪𝘤𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘦𝘳𝘳𝘢𝘵𝘢, 𝘴𝘰𝘭𝘰 𝘶𝘯𝘢 𝘴𝘰𝘴𝘵𝘪𝘵𝘶𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘷𝘶𝘰𝘵𝘢, 𝘴𝘶𝘭𝘭𝘢 𝘤𝘢𝘳𝘵𝘢 𝘱𝘦𝘳 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘯𝘥𝘦𝘳𝘤𝘪, 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘱𝘢𝘳𝘰𝘭𝘦 𝘰𝘣𝘪𝘦𝘵𝘵𝘪𝘷𝘪 𝘥𝘪𝘥𝘢𝘵𝘵𝘪𝘤𝘪 𝘦 𝘧𝘰𝘳𝘮𝘢𝘵𝘪𝘷𝘪. 𝘓𝘢 𝘴𝘦𝘮𝘱𝘭𝘪𝘧𝘪𝘤𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘦̀ 𝘢𝘷𝘷𝘦𝘯𝘶𝘵𝘢 𝘯𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘵𝘳𝘢𝘥𝘶𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘥𝘢 “𝘥𝘦𝘷𝘪 𝘴𝘢𝘱𝘦𝘳𝘦” 𝘪𝘯 𝘥𝘦𝘷𝘪 “𝘴𝘢𝘱𝘦𝘳 𝘧𝘢𝘳𝘦” 𝘴𝘦𝘯𝘻𝘢 𝘮𝘰𝘥𝘪𝘧𝘪𝘤𝘢𝘳𝘯𝘦 𝘭’𝘰𝘨𝘨𝘦𝘵𝘵𝘰. 𝘕𝘦𝘪 𝘤𝘢𝘴𝘪 𝘮𝘪𝘨𝘭𝘪𝘰𝘳𝘪, 𝘱𝘦𝘳 𝘱𝘳𝘰𝘷𝘢𝘳𝘦 𝘢 𝘱𝘳𝘰𝘮𝘶𝘰𝘷𝘦𝘳𝘦 𝘱𝘳𝘢𝘴𝘴𝘪, 𝘩𝘢𝘯𝘯𝘰 𝘴𝘵𝘶𝘥𝘪𝘢𝘵𝘰 𝘦 𝘱𝘳𝘰𝘱𝘰𝘴𝘵𝘰 𝘯𝘦𝘪 𝘭𝘪𝘣𝘳𝘪 𝘥𝘪 𝘵𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘪 𝘤𝘰𝘮𝘱𝘪𝘵𝘪 𝘥𝘪 𝘳𝘦𝘢𝘭𝘵𝘢̀: 𝘴𝘪𝘵𝘶𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘪 (𝘤𝘰𝘮𝘶𝘯𝘲𝘶𝘦 𝘱𝘦𝘳 𝘭𝘰 𝘱𝘪𝘶̀ 𝘱𝘰𝘤𝘰 𝘳𝘦𝘢𝘭𝘪𝘴𝘵𝘪𝘤𝘩𝘦 𝘱𝘦𝘳 𝘨𝘭𝘪 𝘢𝘥𝘰𝘭𝘦𝘴𝘤𝘦𝘯𝘵𝘪) 𝘪𝘯 𝘤𝘶𝘪 𝘨𝘭𝘪 𝘴𝘪 𝘤𝘰𝘯𝘥𝘪𝘴𝘤𝘦 𝘷𝘪𝘢 𝘶𝘯 𝘱𝘳𝘰𝘣𝘭𝘦𝘮𝘢. 𝘌𝘴𝘦𝘮𝘱𝘪𝘰 𝘤𝘰𝘯𝘤𝘳𝘦𝘵𝘰. 𝘖𝘣𝘪𝘦𝘵𝘵𝘪𝘷𝘰 “𝘊𝘰𝘯𝘰𝘴𝘤𝘦𝘳𝘦 𝘭𝘢 𝘥𝘪𝘧𝘧𝘦𝘳𝘦𝘯𝘻𝘢 𝘵𝘳𝘢 𝘱𝘴𝘪𝘤𝘰𝘭𝘰𝘨𝘪𝘢 𝘴𝘤𝘪𝘦𝘯𝘵𝘪𝘧𝘪𝘤𝘢 𝘦 𝘲𝘶𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘥𝘦𝘭 𝘴𝘦𝘯𝘴𝘰 𝘤𝘰𝘮𝘶𝘯𝘦”. 𝘊𝘰𝘮𝘱𝘦𝘵𝘦𝘯𝘻𝘢: “𝘊𝘰𝘨𝘭𝘪𝘦𝘳𝘦 𝘭𝘢 𝘥𝘪𝘧𝘧𝘦𝘳𝘦𝘯𝘻𝘢 𝘵𝘳𝘢 𝘱𝘴𝘪𝘤𝘰𝘭𝘰𝘨𝘪𝘢 𝘴𝘤𝘪𝘦𝘯𝘵𝘪𝘧𝘪𝘤𝘢 𝘦 𝘲𝘶𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘥𝘦𝘭 𝘴𝘦𝘯𝘴𝘰 𝘤𝘰𝘮𝘶𝘯𝘦”. 𝘓𝘰 𝘴𝘰 𝘱𝘦𝘳 𝘤𝘦𝘳𝘵𝘰, 𝘱𝘦𝘳𝘤𝘩𝘦́ 𝘭𝘦 𝘱𝘳𝘰𝘨𝘳𝘢𝘮𝘮𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘪 𝘴𝘤𝘰𝘭𝘢𝘴𝘵𝘪𝘤𝘩𝘦 𝘯𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘴𝘪𝘯𝘨𝘰𝘭𝘦 𝘴𝘤𝘶𝘰𝘭𝘦 𝘴𝘰𝘯𝘰 𝘱𝘪𝘦𝘯𝘦 𝘥𝘪 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘦 𝘧𝘳𝘢𝘴𝘪 𝘥𝘦𝘤𝘭𝘪𝘯𝘢𝘵𝘦 𝘯𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘥𝘪𝘷𝘦𝘳𝘴𝘦 𝘮𝘢𝘵𝘦𝘳𝘪𝘦. 𝘋𝘢 𝘥𝘰𝘷𝘦 𝘯𝘢𝘴𝘤𝘦 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘴𝘦𝘮𝘱𝘭𝘪𝘧𝘪𝘤𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘦 𝘦𝘴𝘪𝘴𝘵𝘰𝘯𝘰 𝘱𝘰𝘴𝘴𝘪𝘣𝘪𝘭𝘪𝘵𝘢̀ 𝘤𝘰𝘯𝘤𝘳𝘦𝘵𝘦 𝘥𝘪 𝘮𝘰𝘥𝘪𝘧𝘪𝘤𝘢𝘳𝘦 𝘭𝘢 𝘴𝘤𝘶𝘰𝘭𝘢 𝘪𝘵𝘢𝘭𝘪𝘢𝘯𝘢, 𝘢𝘯𝘤𝘰𝘳𝘢𝘵𝘢 𝘤𝘰𝘮𝘦 𝘶𝘯𝘢 𝘤𝘰𝘻𝘻𝘢 𝘢𝘭𝘭𝘰 𝘴𝘤𝘰𝘨𝘭𝘪𝘰, 𝘢 𝘮𝘦𝘵𝘰𝘥𝘰𝘭𝘰𝘨𝘪𝘦 𝘥𝘪𝘥𝘢𝘵𝘵𝘪𝘤𝘩𝘦 𝘦 𝘱𝘳𝘰𝘨𝘳𝘢𝘮𝘮𝘪 𝘤𝘩𝘦 𝘨𝘪𝘢̀ 𝘴𝘦𝘨𝘶𝘪𝘷𝘢𝘯𝘰 𝘪 𝘮𝘪𝘦𝘪 𝘨𝘦𝘯𝘪𝘵𝘰𝘳𝘪? 𝘊𝘩𝘦, 𝘥𝘦𝘵𝘵𝘰 𝘱𝘦𝘳 𝘪𝘯𝘤𝘪𝘴𝘰, 𝘩𝘢𝘯𝘯𝘰 𝘢𝘤𝘲𝘶𝘪𝘴𝘪𝘵𝘰 𝘤𝘰𝘮𝘱𝘦𝘵𝘦𝘯𝘻𝘦 𝘴𝘦𝘯𝘻𝘢 𝘤𝘩𝘦 𝘧𝘰𝘴𝘴𝘦 𝘴𝘤𝘳𝘪𝘵𝘵𝘰 𝘥𝘢 𝘯𝘦𝘴𝘴𝘶𝘯𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦. 𝘘𝘶𝘪𝘯𝘥𝘪, 𝘢𝘯𝘤𝘰𝘳𝘢 𝘶𝘯𝘢 𝘷𝘰𝘭𝘵𝘢, 𝘤𝘰𝘴𝘢 𝘱𝘰𝘴𝘴𝘰𝘯𝘰 𝘧𝘢𝘳𝘦 𝘪 𝘥𝘰𝘤𝘦𝘯𝘵𝘪?
Preso atto che le indicazioni legislative consentono ai dirigenti scolastici e agli insegnanti di agire in piena libertà e che la legislazione scolastica sulla carta promuove e dà indicazioni per lavorare sulle competenze, la verità è che la prassi è per lo più invariata da decenni. Io mi sono chiesta perché? Perché ci si ostina ad utilizzare modelli superati (solo il Covid19 ha fatto sì che finalmente ci fosse una maggior digitalizzazione nelle scuole superiori) nella formazione degli studenti. Una risposta me la sono in parte data: per tradizione e imitazione. Faccio un parallelismo: quando si diventa genitori, nella maggior parte dei casi, ci si comporta quasi esattamente come i propri genitori, anche se fino al giorno prima la frase più tipica era: “No, io con i miei figli non farò mai come ha fatto mia madre con me!”. Poi dato che non sai bene come fare, fai riferimento a quell’unico modello che hai interiorizzato con il rischio di commettere gli stessi errori.
A scuola avviene secondo me più o meno la stessa cosa: puoi aver studiato benissimo la tua materia, essere un genio della matematica o della filosofia, ma in quella classe, con gli adolescenti, a poco serve e sebbene “tutti” ti dicano che devi “valutare competenze” finisci irrimediabilmente per valutare conoscenze, obiettivi specifici di apprendimento. Perché il modello che hai interiorizzato dai tuoi “vecchi” insegnanti, quello di cui sei fresco di laurea, è quello. E lo metti in atto come il neo-genitore che “mai più gli errori di mia madre”.
E allora via, di conseguenza, di competitività: già, perché la scuola in cui sono crescita io ha gettato le basi per il mondo competitivo in cui vivo e che cordialmente detesto, l’unica competitività che amo è quella con me stessa. Le mie sfide quotidiane per imparare e fare nuove cose. Ogni anno.
Ma quindi, realmente cosa si può fare? Di certo non una lobotomia ai docenti per far loro rimuovere in forma permanente i modelli appresi. Nemmeno scelte drastiche, (oppure sì) tipo eliminare i libri di testo, cosicché ogni docente dovrebbe produrre anche il materiale da proporre alla classe. Ma poi crollerebbe il mondo già in crisi dell’editoria… e via così.
Le soluzioni io non le ho in tasca, ma sono partita avvantaggiata quando ho iniziato a insegnare.
1. Ho iniziato a insegnare tardi: a 38 anni e per di più come sostegno. Solo a quarant’anni ho incominciato a entrare in classe come docente di scienze umane e comunicazione. Quindi ho fatto in tempo a rimuovere i miei insegnanti del liceo.
2. Provengo dal mondo dell’educativa: disabilità, centri per disturbo dell’apprendimento, didattica speciale. Così, quelli che i miei colleghi spesso definiscono “studenti difficili” per me sono semplicemente studenti. E ogni studente mi pone le sue sfide.
3. La didattica è la mia passione. Più di ogni altra cosa, ciò che amo di più è preparare lezioni che fanno solo in parte riferimento ai libri di testo, ciò che mal sopporto è correggere verifiche e dare voti. E amo osservare, indagare i processi cognitivi.
Quindi, quando ho deciso che era venuto il tempo di entrare in classe, la domanda che mi sono posta è stata: l’impostazione scolastica “vecchia” ha creato un mondo adulto responsabile? No, non lo ha creato e non lo dico io ma la situazione politica, economica, ambientale, sociale che stiamo vivendo. Mi chiedono di formare menti pensanti e io penso davvero di farlo chiedendo una lezioncina che poi dimenticano?
E così ho provato, piano piano, nuove strade. E’ ovvio che spiego e utilizzo un libro di testo, ma ad esempio, ho “abolito” le interrogazioni orali, in favore di presentazioni, di lezioni che devono creare gli studenti stessi e poi esporre alla classe. Ho tagliato, integrato, spostato alcuni argomenti, collocandoli vicini all’attualità. E negli scritti (per legge ci sono, sono obbligata a farli, ma sono anche favorevole perché devono saper scrivere bene) mi sono inventata prove di competenza, o meglio, situazioni pratiche che devono risolvere e che prevedono un prodotto finale: sia la recensione di un film, che la creazione di una campagna pubblicitaria.
Ai ragazzi piace fare, e facendo studiano le cose che gli servono, selezionano le informazioni, le approfondiscono, tutto per realizzare qualcosa di concreto. Se acquisire competenze vuol dire saper fare, e poi non c’è un prodotto… cosa stiamo valutando?
Ovviamente sono per l’apprendimento cooperativo. Si abituano dalla prima superiore a non confrontarsi, ad ognuno chiedo di dare il meglio, prodotti simili ma personali, e sicuramente la classe non è una gara a chi arriva primo, ma semmai una squadra che procede insieme verso la meta. Io sono solo l’allenatore. O il regista. Decido lo schema. Scrivo una sceneggiatura. Sto lì. Do indicazioni. Incoraggio. Monitoro. Urlo, mi incazzo (a volte), li abbraccio… se perdono loro, in fondo ho perso anche io.
Mi darà ragione d’essere questa modalità?… non lo so. Come disse Manzoni: “Ai posteri l’ardua sentenza.”
Articolo e foto di 2021 © Chiara Resenterra 27 aprile 2021
𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥 𝐛𝐲 𝐕𝐚𝐥𝐞
𝐈𝐍𝐂𝐋𝐔𝐒𝐈𝐎𝐍𝐄 𝐏𝐄𝐑 𝐓𝐔𝐓𝐓𝐈, 𝐋’𝐀𝐋𝐁𝐀 𝐃𝐈 𝐔𝐍𝐀 𝐍𝐔𝐎𝐕𝐀 𝐃𝐈𝐃𝐀𝐓𝐓𝐈𝐂𝐀?
𝑃𝑎𝑟𝑒 𝑓𝑎𝑐𝑖𝑙𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑑𝑖 𝑖𝑛𝑐𝑙𝑢𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑚𝑎 𝑜𝑔𝑔𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑖 𝑡𝑟𝑎𝑡𝑡𝑎 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑙𝑖𝑐𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑚𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑎 𝑐ℎ𝑖 ℎ𝑎 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑖𝑐𝑜𝑙𝑡𝑎̀, 𝑔𝑒𝑛𝑒𝑟𝑎𝑙𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑎𝑝𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜, 𝑑𝑖 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑣𝑎𝑙𝑜𝑟𝑖𝑧𝑧𝑎𝑡𝑜 𝑒 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑟𝑖𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑟𝑟𝑒𝑡𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑛𝑒𝑙 𝑔𝑟𝑢𝑝𝑝𝑜 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑒.
𝑇𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑎𝑏𝑏𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑣𝑖𝑠𝑠𝑢𝑡𝑜 𝑢𝑛 𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑖𝑐𝑖𝑙𝑒 𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑎𝑝𝑝𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑒𝑠𝑎𝑡𝑡𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑎𝑣𝑟𝑎̀ 𝑑𝑎𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑢𝑛 𝑡𝑒𝑟𝑚𝑖𝑛𝑒.
𝑈𝑛𝑎 𝑏𝑢𝑜𝑛𝑎 𝑠𝑡𝑟𝑎𝑡𝑒𝑔𝑖𝑎 𝑑𝑖 “𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎𝑣𝑣𝑖𝑣𝑒𝑛𝑧𝑎” 𝑝𝑒𝑟 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖, 𝑎𝑙𝑢𝑛𝑛𝑖 𝑒 𝑑𝑜𝑐𝑒𝑛𝑡𝑖, 𝑝𝑜𝑡𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑟𝑖𝑝𝑒𝑛𝑠𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑓𝑎𝑚𝑜𝑠𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑚𝑎𝑖 𝑢𝑠𝑢𝑟𝑎𝑡𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑒𝑡𝑒𝑛𝑧𝑒.
𝑄𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑖𝑑𝑒𝑎 𝑑𝑖 𝑏𝑎𝑠𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑢𝑛 𝑖𝑚𝑝𝑒𝑔𝑛𝑜 𝑚𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜𝑟𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖, 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑑𝑜 𝑔𝑖𝑎̀ 𝑝𝑒𝑠𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑠𝑢𝑜 𝑚𝑎 𝑢𝑛 𝑐𝑎𝑚𝑏𝑖𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑎, 𝑙𝑎𝑑𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑖𝑙 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑑𝑖 “𝑠𝑎𝑝𝑒𝑟 𝑓𝑎𝑟𝑒”, 𝑠𝑒𝑝𝑝𝑢𝑟 𝑜𝑟𝑚𝑎𝑖 𝑠𝑝𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑔𝑖𝑎̀ 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑡𝑜 𝑒 𝑔𝑖𝑎̀ 𝑢𝑡𝑖𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑡𝑜 𝑛𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑚𝑎𝑖 𝑠𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑝𝑙𝑎𝑠𝑚𝑎𝑡𝑜 𝑒 𝑟𝑒𝑠𝑜 𝑐𝑎𝑟𝑑𝑖𝑛𝑒 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑟𝑖𝑣𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑐𝑜𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑎.
𝐿𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑒𝑡𝑒𝑛𝑧𝑒 𝑐𝑖 𝑠𝑎𝑙𝑣𝑒𝑟𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 “𝑖𝑛𝑐𝑙𝑢𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑓𝑎𝑐𝑖𝑙𝑒” 𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑒𝑟𝑖𝑟𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑒𝑓𝑓𝑖𝑐𝑎𝑐𝑖𝑎 𝑎𝑑 𝑢𝑛 𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑠𝑐𝑜𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑒𝑚𝑏𝑟𝑎 𝑜𝑟𝑚𝑎𝑖 𝑎𝑣𝑒𝑟 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑟𝑒𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎?
𝐂𝐨𝐦𝐞 𝐬𝐢 𝐜𝐨𝐬𝐭𝐫𝐮𝐢𝐬𝐜𝐞 𝐥’𝐢𝐧𝐜𝐥𝐮𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞?
Durante le varie zone rosse che si sono succedute in questi mesi, è stata data la possibilità solo ai “BES”, ovvero ai ragazzi con Bisogni Educativi Speciali di frequentare fisicamente la scuola.
Chi ha usufruito di questa occasione è stato generalmente ripagato, grazie al rapporto diretto con i docenti e la chance di seguire le lezioni dal vivo, senza le distrazioni di casa e le noie dovute alla DAD.
Ritengo che la teoria degli insiemi sia un buon modo per spiegare in parole semplici di cosa stiamo parlando quando ci riferiamo in ambiente scolastico ai “BES”.
Possiamo, infatti, individuare all’interno del macro-insieme dei Bisogni Educativi Speciali, alcune difficoltà di apprendimento più specifiche come la dislessia, ovvero la fatica nella lettura, piuttosto che la disortografia, legata invece agli errori grammaticali nello scrivere.
Ci sono poi difficoltà diverse, che hanno ricadute sulla capacità di mantenere l’attenzione come l’iperattività, e fatiche derivate da patologie croniche o problemi nell’ambito familiare.
Le difficoltà di apprendimento, in particolare, pesano molto sul percorso scolastico, finché ogni alunno non trova un proprio metodo di compensazione.
Per le altre, in genere si possono attuare alcune strategie di intervento oppure di contenimento, per rendere il soggetto più flessibile nell’accettare e rispettare le regole richieste dall’ambiente scolastico.
Grossi problemi però, hanno origine da queste “etichette”, che rendono facile l’inquadramento dei ragazzi dall’esterno ma spesso purtroppo non sono accettate, spesso ne’ dai genitori ne’ dagli alunni stessi.
Tutte queste fatiche, inoltre, sembrano moltiplicate dopo questo anno pesante, faticoso, interminabile.
Inoltre, ci troviamo di fronte sempre più spesso ad altri tipi di problemi: ragazzi che scambiano il giorno con la notte, che passano le ore del riposo a giocare ai videogiochi, che non hanno possibilità di fare sport, di vedere gli amici, di socializzare.
Vogliamo parlare per un momento anche degli insegnanti?
Dopo mesi e mesi di DAD, di incertezze, di rientri preventivati e organizzati e poi disattesi, di riprogrammazioni, di una vita che, per carità come quella di tutti gli altri, non è stata più vita.
Il disagio psicologico rischia di accomunare tutti; abbiamo tutti, chi più chi meno, in questo momento dei Bisogni Speciali.
Allora forse questo può essere davvero lo spunto per un 𝐜𝐚𝐦𝐛𝐢𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐩𝐫𝐨𝐬𝐩𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐚, in cui si supera finalmente il punto di vista di un gruppo di “normali” che devono includere i “diversi” e considerarci tutti semplicemente uguali.
Al di là delle difficoltà pratiche e delle strategie di compensazione, ciò che può differenziare davvero il singolo, che sia un docente oppure uno studente, nel percorso scolastico può essere semplicemente la condizione in cui si trova.
Perciò, in questo anno particolare, di volta in volta abbiamo necessità di maggiori attenzioni perché viviamo una situazione di fatica, oppure siamo capaci di condividere con gli altri le nostre energie e il nostro aiuto, perché abbiamo superato il momento difficile e abbiamo recuperato un nuovo entusiasmo.
A questo punto, tutto il percorso scolastico si potrebbe impostare nuovamente, in modo che sia davvero accessibile a tutti e con-partecipato, al di là del singolo esercizio, della singola verifica, del singolo voto.
Come possiamo fare per mettere in pratica questa, che sembra di base davvero essere un’utopia?
𝐋𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐞 𝐂𝐎𝐌𝐏𝐄𝐓𝐄𝐍𝐙𝐄, 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐬𝐮𝐥𝐥’𝐈𝐍𝐃𝐈𝐕𝐈𝐃𝐔𝐎.
All’inizio della mia carriera scolastica, come consuetudine ho ereditato i programmi di italiano e storia dalla docente che mi ha preceduto.
Una lunghissima sezione era dedicata alle competenze attese, alle abilità e agli obiettivi.
Per molto tempo, questa parte mi è sembrata un susseguirsi di concetti ripetuti e di poca sostanza concreta.
Inoltre, difficilmente questa porzione di programma subiva delle sostanziali modifiche di anno in anno perché, almeno inizialmente ci si concentra in genere sui contenuti del programma.
Una volta stabiliti gli argomenti però, ho capito quanto questi fossero intimamente legati a quelle parti che a prima vista sembravano “accessorie”.
Una riflessione approfondita sugli obiettivi e sulle competenze si era resa per me assolutamente necessaria, perché la mia pratica dell’insegnamento divenisse realmente efficace.
Fare parte di una bella squadra in questo caso, come in molti altri, mi ha aiutato.
Questo ha significato in prima battuta, come docenti, farci delle domande.
Ci siamo chiesti: all’inizio dell’anno scolastico con quali competenze l’alunno è arrivato?
Cosa, nella pratica sa già fare?
A fronte di queste competenze, quali sono le sue fatiche?
Avere a disposizione questi elementi, però diventa utile solo a metà, se non sono condivisi con i ragazzi.
Questo passaggio è fondamentale ed è importante che venga svolto coinvolgendo lo studente in prima persona, perché possa essere consapevole del proprio punto di partenza e da lì procedere verso l’individuazione di obiettivi condivisi con l’insegnante.
Mi è capitato spesso di vedere alunni convinti nel momento della valutazione di aver svolto una prestazione del tutto convincente e adeguata e invece totalmente inconsapevoli rispetto alle proprie fatiche.
Inoltre, in alcuni casi le difficoltà non sono certificate ma esistono e quindi, al di là di quanto stabilito in fase di test vari, bisogna impegnarsi comunque e al meglio per compensarle. E’ quindi molto importante che gli studenti sappiano quali sono i propri punti di forza e quali i possibili ambiti di caduta.
Il ragionamento preliminare, ovviamente è da applicare ad ogni disciplina, in modo che si abbia ben chiaro il punto di partenza.
Altro elemento non trascurabile è sicuramente il fatto di procedere in questo percorso puntando sulla relazione tra professore e singolo alunno. Ho già avuto modo di accennare al fatto che, per comodità, spesso il gruppo dei docenti ragioni per “classe” ma qui è in gioco la presa in carico e la responsabilizzazione dell’individuo di fronte al proprio percorso scolastico.
Questo passaggio di riflessione, tra l’altro potrebbe avere anche una felice prosecuzione nell’acquisizione di un metodo, che può essere spendibile anche nella vita in generale.
Una volta stabiliti insieme gli obiettivi e le strategie di prosecuzione, ovvero potenziali compensazioni per le fatiche -ripeto, certificate o meno che siano- ed eventuali momenti di potenziamento rispetto ai punti di forza, si può procedere serenamente nel percorso.
Come facilmente intuibile, si tratta di un’idea condivisibile, da chi è generalmente incluso nei “BES” e chi non lo è.
Chiudo il mio discorso con un piccolo aneddoto.
A fronte della risposta di un alunno, in riferimento ai presenti attualmente in classe, quindi identificati tutti come ragazzi BES: “Profe, ma noi siamo ragazzi speciali!”, la mia risposta è stata “No, siete tutti speciali e ognuno a modo proprio”.
Uscire dalla condizione di “BES”, forse aiuterebbe tutti i ragazzi a sentirsi speciali, in forza della loro unicità e non delle loro fatiche.
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Articolo e immagine di 2021 © Valentina Finocchiaro 23 marzo 2021
𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥 𝐛𝐲 𝐂𝐡𝐢𝐚𝐫𝐚
𝐎.𝐒.𝐀. 𝐐𝐔𝐀𝐋𝐈 𝐎𝐁𝐈𝐄𝐓𝐓𝐈𝐕𝐈?
𝑁𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑒𝑡𝑒𝑛𝑧𝑒, 𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑚𝑖𝑙𝑙𝑒 𝑒 𝑢𝑛𝑜 𝑎𝑐𝑟𝑜𝑛𝑖𝑚𝑖 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑢𝑖 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑔𝑙𝑖 “𝑎𝑑𝑑𝑒𝑡𝑡𝑖 𝑎𝑖 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑖” 𝑟𝑖𝑠𝑐ℎ𝑖𝑎𝑛𝑜 𝑑𝑖 𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑛 𝑐𝑟𝑖𝑠𝑖, 𝑐ℎ𝑒 𝑟𝑢𝑜𝑙𝑜 𝑔𝑖𝑜𝑐𝑎𝑛𝑜 𝑔𝑙𝑖 𝑂𝑏𝑖𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖 𝑆𝑝𝑒𝑐𝑖𝑓𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑖 𝐴𝑝𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜? 𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑖 𝑑𝑖𝑓𝑓𝑒𝑟𝑒𝑛𝑧𝑖𝑎𝑛𝑜 𝑑𝑎𝑔𝑙𝑖 𝑂𝑏𝑖𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖 𝐹𝑜𝑟𝑚𝑎𝑡𝑖𝑣𝑖 𝑒 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑒𝑡𝑒𝑛𝑧𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑒? 𝑁𝑜𝑛 𝑐’𝑒̀ 𝑖𝑙 𝑟𝑖𝑠𝑐ℎ𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑢𝑛’𝑒𝑐𝑐𝑒𝑠𝑠𝑖𝑣𝑎 𝑏𝑢𝑟𝑜𝑐𝑟𝑎𝑡𝑖𝑧𝑧𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑖 𝑡𝑒𝑟𝑚𝑖𝑛𝑖 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜, 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑓𝑖𝑛𝑒, 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑎 𝑣𝑒𝑟𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑒̀ 𝑖𝑙 𝑝𝑒𝑟𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜 𝑒𝑑𝑢𝑐𝑎𝑡𝑖𝑣𝑜 𝑒 𝑑𝑖𝑑𝑎𝑡𝑡𝑖𝑐𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑠𝑡𝑢𝑑𝑒𝑛𝑡𝑒? 𝐴 𝑚𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜𝑟 𝑟𝑎𝑔𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑂𝑆𝐸𝑅𝐸𝐼 𝑑𝑖𝑟𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑎 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑎𝑟𝑖𝑎, 𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑚𝑜𝑑𝑜 𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙’𝑎𝑙𝑡𝑟𝑜 𝑖 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑖 𝑠𝑖 𝑔𝑖𝑜𝑐𝑎𝑛𝑜 𝑢𝑛𝑎 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑠𝑐𝑒𝑙𝑡𝑒 𝑖𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑛𝑡𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑣𝑖𝑡𝑎, 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑑𝑖 𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑝𝑜𝑖 𝑛𝑒𝑙 𝑚𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑑𝑒𝑙 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑜 𝑝𝑟𝑜𝑠𝑒𝑔𝑢𝑖𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑎 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒. 𝐸𝑐𝑐𝑜, 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑟𝑐𝑖 𝑎𝑙 𝑚𝑒𝑔𝑙𝑖𝑜, 𝑐𝑟𝑒𝑑𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑎𝑙𝑑𝑖𝑙𝑎̀ 𝑑𝑖 𝑡𝑎𝑛𝑡𝑖 𝑡𝑒𝑐𝑛𝑖𝑐𝑖𝑠𝑚𝑖 𝑠𝑖𝑎 𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑖 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑎 𝑎 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑟𝑛𝑒 𝑙’𝑖𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑛𝑧𝑎, 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑖 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑜𝑛𝑔𝑜 𝑖𝑛 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑎𝑟𝑡𝑖𝑐𝑜𝑙𝑜 𝑒̀ 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜 𝑢𝑛 𝑂.𝑆.𝐴. 𝑑𝑒𝑐𝑙𝑖𝑛𝑎𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑠𝑡𝑢𝑑𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑎𝑠𝑜.
I Programmi Ministeriali ci dicono quali sono gli obiettivi specifici di Apprendimento in Scienze Umane al termine del primo biennio. Testualmente: 𝐋𝐨 𝐬𝐭𝐮𝐝𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐫𝐞𝐧𝐝𝐞 𝐥𝐚 𝐬𝐩𝐞𝐜𝐢𝐟𝐢𝐜𝐢𝐭𝐚̀ 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐬𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐚 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐝𝐢𝐬𝐜𝐢𝐩𝐥𝐢𝐧𝐚 𝐬𝐜𝐢𝐞𝐧𝐭𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚 𝐞 𝐜𝐨𝐧𝐨𝐬𝐜𝐞 𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐬𝐩𝐞𝐭𝐭𝐢 𝐩𝐫𝐢𝐧𝐜𝐢𝐩𝐚𝐥𝐢 𝐝𝐞𝐥 𝐟𝐮𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐦𝐞𝐧𝐭𝐚𝐥𝐞, 𝐬𝐢𝐚 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐬𝐮𝐞 𝐜𝐚𝐫𝐚𝐭𝐭𝐞𝐫𝐢𝐬𝐭𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐢 𝐛𝐚𝐬𝐞, 𝐬𝐢𝐚 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐬𝐮𝐞 𝐝𝐢𝐦𝐞𝐧𝐬𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐞𝐯𝐨𝐥𝐮𝐭𝐢𝐯𝐞 𝐞 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥𝐢. 𝐋𝐨 𝐬𝐭𝐮𝐝𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐜𝐨𝐠𝐥𝐢𝐞 𝐥𝐚 𝐝𝐢𝐟𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐭𝐫𝐚 𝐥𝐚 𝐩𝐬𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐚 𝐬𝐜𝐢𝐞𝐧𝐭𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚 𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐨 𝐜𝐨𝐦𝐮𝐧𝐞, 𝐬𝐨𝐭𝐭𝐨𝐥𝐢𝐧𝐞𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐥𝐞 𝐞𝐬𝐢𝐠𝐞𝐧𝐳𝐞 𝐝𝐢 𝐯𝐞𝐫𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐞𝐦𝐩𝐢𝐫𝐢𝐜𝐚 𝐞 𝐝𝐢 𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐦𝐚𝐭𝐢𝐜𝐢𝐭𝐚̀ 𝐭𝐞𝐨𝐫𝐢𝐜𝐚 𝐜𝐮𝐢 𝐥𝐚 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 𝐜𝐞𝐫𝐜𝐚 𝐝𝐢 𝐚𝐝𝐞𝐠𝐮𝐚𝐫𝐬𝐢.” 𝟏
Sì, okay...ma come? Già questo, per i legislatori, è un Osa. Ma è sufficiente? Dal mio punto di vista, per essere anche necessario implica la personale rielaborazione da parte mia, per ogni singola unità di apprendimento, altrimenti questa specificità smette di esistere e crea confusione con quelle che possono essere considerate la competenze attese.
E così, nelle programmazioni, Osa e Contenuti, incominciano a trovare una corrispondenza biunivoca.
Concretamente.
Il programma ministeriale, e testo scolastico di riferimento, di qualsiasi casa editrice per altro, colloca la Memoria come unità 3 nel corso de primo anno di studi. Ecco, 𝐢𝐨 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐦𝐢𝐚 𝐩𝐫𝐨𝐠𝐫𝐚𝐦𝐦𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐬𝐞𝐠𝐮𝐨 𝐥’𝐨𝐫𝐝𝐢𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨, 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐢𝐨 𝐯𝐨𝐠𝐥𝐢𝐨 𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐭𝐞𝐦𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐌𝐞𝐦𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐚 𝐠𝐞𝐧𝐧𝐚𝐢𝐨, 𝐢𝐧 𝐜𝐨𝐫𝐫𝐢𝐬𝐩𝐨𝐧𝐝𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐠𝐢𝐨𝐫𝐧𝐚𝐭𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐌𝐞𝐦𝐨𝐫𝐢𝐚. 𝐂𝐨𝐧𝐢𝐮𝐠𝐚𝐫𝐞 𝐥𝐚 𝐠𝐞𝐧𝐞𝐫𝐚𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐈𝐧𝐝𝐢𝐜𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢, 𝐬𝐢𝐠𝐧𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚 𝐭𝐫𝐨𝐯𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐦𝐢𝐨 𝐎𝐒𝐀.
Quindi comprendere la specificità della psicologia come disciplina scientifica significa agganciarla alla realtà, viva e attuale. Parliamo della Giornata della Memoria, e inseriamola nella programmazione scolastica. OSA per i miei ragazzi sarà quindi:
- Apprendere come la memoria sia un sistema complesso che comprende memoria visiva, memoria a breve termine, memoria a lungo termine, memoria prospettica.
- Apprendere che tale Ebbinghaus ci mostra come la memoria sia una rievocazione e Barlett come la memoria sia ricostruzione.
- Apprendere i concetti di oblio e amnesia
- Apprendere che la Giornata della Memoria può e deve essere letta attraverso categorie che ci
aiutano a comprenderne meglio l’importanza e la significatività, affinchè non finisca mai nell’oblio.
𝐄’ 𝐢𝐦𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐞𝐬𝐩𝐥𝐢𝐜𝐢𝐭𝐚𝐫𝐞 𝐚𝐠𝐥𝐢 𝐬𝐭𝐮𝐝𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐝𝐞𝐬𝐢𝐝𝐞𝐫𝐨 𝐬𝐚𝐩𝐩𝐢𝐚𝐧𝐨, 𝐦𝐚 𝐧𝐨𝐧 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐦𝐞𝐫𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐨𝐬𝐜𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐟𝐢𝐧𝐞 𝐚 𝐬𝐞 𝐬𝐭𝐞𝐬𝐬𝐚, 𝐦𝐚 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐩𝐞𝐫 𝐥𝐞𝐠𝐠𝐞𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐦𝐨𝐧𝐝𝐨, a loro serve questa stessa conoscenza, che passa da tanti canali: il libro di testo, le mie spiegazioni, le loro domande, le loro ricerche, le loro esperienze... ma l’obiettivo, il fine per cui sono chiamati a “studiare” deve essere chiaro. E non è enunciando un principio generale ministeriale che questo obiettivo diventa comprensibile e, passatemi il termine, appetibile. Gli OSA devono generare curiosità. Devono generare negli studenti desiderio di conoscenza.
Ma c’è di più. 𝐐𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐩𝐫𝐨𝐠𝐫𝐚𝐦𝐦𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞, 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐢 𝐨𝐛𝐢𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐢, 𝐬𝐢 𝐚𝐠𝐠𝐚𝐧𝐜𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐚 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐢 𝐝𝐢 𝐚𝐥𝐭𝐫𝐞 𝐝𝐢𝐬𝐜𝐢𝐩𝐥𝐢𝐧𝐞 𝐚𝐟𝐟𝐢𝐧𝐢 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐝𝐢𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨, 𝐢𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐞 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚, dove i ragazzi apprenderanno il concetto di patrimonio, tutela di beni e come nella storia della Shoah sia stati lesi questi e altri diritti umani importanti, apprenderanno le origini della storia del popolo ebraico, la riflessione linguistica sull’importanza delle parole... a gennaio. Perché questo significa far convergere gli OSA.
I𝐧 𝐜𝐨𝐧𝐜𝐥𝐮𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐫𝐢𝐭𝐞𝐧𝐠𝐨 𝐪𝐮𝐢𝐧𝐝𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐠𝐥𝐢 𝐎𝐛𝐢𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐢 𝐒𝐩𝐞𝐜𝐢𝐟𝐢𝐜𝐢 𝐝𝐢 𝐀𝐩𝐩𝐫𝐞𝐧𝐝𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨, 𝐢𝐧 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐢𝐬 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐜𝐡𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐠𝐥𝐢 𝐬𝐭𝐮𝐝𝐞𝐧𝐭𝐢, 𝐝𝐞𝐯𝐨𝐧𝐨 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧 𝐯𝐚𝐥𝐢𝐝𝐨 𝐬𝐭𝐫𝐮𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐠𝐥𝐢 𝐢𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐧𝐭𝐢 𝐝𝐢 𝐫𝐢𝐟𝐥𝐞𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐥𝐨𝐫𝐨 𝐩𝐫𝐨𝐠𝐫𝐚𝐦𝐦𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐬𝐜𝐨𝐥𝐚𝐬𝐭𝐢𝐜𝐚, 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐬𝐜𝐚𝐯𝐢𝐧𝐨 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐩𝐞𝐜𝐢𝐟𝐢𝐜𝐢𝐭𝐚̀ 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐦𝐚𝐭𝐞𝐫𝐢𝐚, 𝐨𝐫𝐢𝐞𝐧𝐭𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐬𝐜𝐞𝐥𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐚𝐫𝐠𝐨𝐦𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐝𝐚 𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐚𝐫𝐞, temi specifici che, nella scuola che vorrei, dovrebbero sempre più acquisire il carattere dell’interdisciplinarietà, per entrare a pieno titolo in accordo con i più ampi Obiettivi Formativi e Competenze. Quindi, come insegnanti, O.S.i.A.mo scelte per i ragazzi e per noi, spiegando il senso di ogni passo che stiamo, con loro, compiendo.
nota1. Fonte “𝐼𝑛𝑑𝑖𝑐𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑁𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑎𝑙𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝐿𝑖𝑐𝑒𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑆𝑐𝑖𝑒𝑛𝑧𝑒 𝑈𝑚𝑎𝑛𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑟𝑖𝑧𝑧𝑜 𝑆𝑜𝑐𝑖𝑜-𝐸𝑐𝑜𝑛𝑜𝑚𝑖𝑐𝑜”.
Articolo e immagine di 2021 © Chiara Resenterra 23 febbraio 2021
𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥 𝐛𝐲 𝐕𝐚𝐥𝐞
𝐑𝐄𝐋𝐀𝐙𝐈𝐎𝐍𝐈 𝐏𝐄𝐑𝐈𝐂𝐎𝐋𝐎𝐒𝐄
𝑈𝑛𝑜 𝑠𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑜 𝑠𝑢𝑙 𝒓𝒂𝒑𝒑𝒐𝒓𝒕𝒐 𝒕𝒓𝒂 𝒔𝒄𝒖𝒐𝒍𝒂 𝒆 𝒇𝒂𝒎𝒊𝒈𝒍𝒊𝒂.
𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑡𝑟𝑎 𝑑𝑜𝑐𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑒 𝑔𝑒𝑛𝑖𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑝𝑢𝑜̀ 𝑐𝑟𝑒𝑎𝑟𝑠𝑖, 𝑚𝑜𝑑𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎𝑟𝑠𝑖 𝑒 𝑖𝑛𝑓𝑙𝑢𝑖𝑟𝑒 𝑠𝑢𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑒𝑠𝑎 𝑖𝑛 𝑐𝑎𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑑𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑑𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑙𝑢𝑛𝑛𝑖, 𝑟𝑖𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑎𝑙 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜 𝑠𝑐𝑜𝑙𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐𝑜.
𝑈𝑛 𝑎𝑐𝑐𝑒𝑛𝑛𝑜 𝑎 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑠𝑖 𝑠𝑖𝑎 𝑚𝑜𝑑𝑖𝑓𝑖𝑐𝑎𝑡𝑎 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑒 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑖𝑜𝑟𝑖 𝑐𝑜𝑛 𝑙’𝑖𝑛𝑡𝑟𝑜𝑑𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑒𝑐𝑛𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎 𝑎𝑖 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝐶𝑜𝑣𝑖𝑑.
𝐼𝑛𝑓𝑖𝑛𝑒, 𝑢𝑛𝑎 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑠𝑢 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑎 𝑓𝑎𝑚𝑖𝑔𝑙𝑖𝑎 𝑠𝑖𝑎 𝑖𝑚𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑓𝑎𝑣𝑜𝑟𝑖𝑟𝑒 𝑢𝑛 𝑝𝑒𝑟𝑐𝑜𝑟𝑠𝑜 𝑝𝑜𝑠𝑖𝑡𝑖𝑣𝑜 𝑎 𝑠𝑐𝑢𝑜𝑙𝑎 𝑒 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑖 𝑟𝑎𝑔𝑎𝑧𝑧𝑖 𝑎 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑟𝑠𝑖 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑠𝑜𝑠𝑡𝑒𝑛𝑢𝑡𝑖 𝑚𝑎 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑒𝑡𝑡𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑟𝑒𝑠𝑝𝑜𝑛𝑠𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑡𝑖.
Quando dico “Relazioni pericolose” non parlo del classico libro omonimo di Laclos, né del film cult anni ’90.
Parlo delle relazioni a scuola.
Tra queste, una in particolare corre sul filo di un rasoio: se mal impostata o gestita può causare parecchi danni agli studenti, seppur questi non vi siano coinvolti direttamente.
Se, al contrario, si trova il modo di creare una collaborazione proficua, questo rapporto si riflette positivamente anche sull’andamento scolastico dei ragazzi.
𝐌𝐢 𝐫𝐢𝐟𝐞𝐫𝐢𝐬𝐜𝐨 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐫𝐞𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐭𝐫𝐚 𝐬𝐜𝐮𝐨𝐥𝐚 𝐞 𝐟𝐚𝐦𝐢𝐠𝐥𝐢𝐚.
Più che qualcosa di reciproco, il primo approccio a una scuola nuova si rivela per il genitore come una rete, che prende le mosse dal momento in cui madri e padri varcano l’antro scolastico per rivolgersi alla Segretaria e chiedere informazioni, per passare dall’amministrazione, dalle figure preposte alle iscrizioni ed eventualmente ulteriore personale scolastico di intermediazione.
I genitori, di fatto non incontrano subito i docenti, se non in occasione di eventuali Open Day e quindi, generalmente quasi un anno prima dell’ingresso dei figli a scuola.
Possiamo quindi ammettere facilmente che, parlando sempre in generale, 𝐥𝐚 𝐟𝐚𝐦𝐢𝐠𝐥𝐢𝐚 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐢𝐚 𝐮𝐧 𝐠𝐫𝐚𝐧𝐝𝐞 𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐟𝐢𝐝𝐮𝐜𝐢𝐚 nel consentire ai ragazzi di iscriversi e frequentare una determinata scuola.
L’incontro con gli insegnanti può avvenire solo in seguito, con i colloqui individuali o collettivi, oppure tramite le assemblee di classe.
Questo periodo intermedio tra l’inizio della frequenza e l’incontro dei genitori con i professori, permette agli studenti, specialmente per le classi prime e per i nuovi arrivati, di farsi conoscere dal Consiglio di classe e al tempo stesso ai docenti di rendersi conto della personcina che hanno davanti e formulare un’idea concreta delle strategie migliori, per essere una buona guida all’apprendimento nel corso dell’anno scolastico.
Alcuni genitori però, forse perché particolarmente apprensivi o perché credono sia la scelta migliore quella di agire il prima possibile in caso di un inizio non particolarmente felice, chiedono un colloquio alquanto prematuro.
Si innesca così una sorta di meccanismo di difesa del docente, che percepisce il disagio del genitore e pur comprendendo questa necessità di rassicurazione, sa bene che la relazione con lo studente ha bisogno di tempo per crearsi e consolidarsi.
Un mio professore dell’università era solito dire e ripetere spesso: “ Non c’è una seconda occasione per fare una prima buona impressione”.
Certo, questo è sicuramente vero, ma al di là della prima buona impressione, è facendo un percorso condiviso che la relazione tra studente e docente cresce, si evolve e si consolida, per raggiungere insieme la conclusione del percorso di quell’anno formativo.
Non a caso il docente insegnava all’università, dove non è necessario che i rapporti insegnante/studenti siano così stretti.
Quello di cui il professore delle superiori dovrebbe dare conto nel colloquio con il genitore, è ciò che emerge non tanto dallo studente in sé o dalle sue prestazioni iniziali, il che potrebbe risultare come un’opinione del tutto parziale e lecitamente essere recepito come un giudizio categorico e fine a sé stesso, ma della relazione che con lo studente è riuscito ad impostare e dei passi avanti che insieme alunno e insegnante hanno compiuto.
A chiusura di questi colloqui, di solito si chiede un nuovo atto di fiducia: il docente si prenderà cura dell’alunno e darà conto al prossimo incontro dei risultati rispetto alla prosecuzione della relazione in essere.
𝐌𝐚 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐜𝐡𝐢𝐞𝐝𝐞 𝐮𝐧 𝐠𝐞𝐧𝐢𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐚𝐥𝐥’𝐢𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐧𝐭𝐞?
Generalmente si fa portavoce del percorso scolastico precedente del figlio e di eventuali difficoltà pregresse, che possano fornire al docente un quadro più chiaro, rispetto ad alcuni comportamenti o atteggiamenti del figlio.
Si interessa dell’educazione e del comportamento, delle relazioni con i compagni e i docenti e dell’impegno dimostrato a scuola.
A volte si tenta di condividere comportamenti negativi che riguardano anche la vita fuori da scuola, per cercare strategie comuni di intervento: nella maggior parte dei casi questa operazione non è possibile.
Il docente non è uno psicologo e la sua funzione si assolve ed esaurisce in ciò che riguarda l’ambito scolastico, certo in ogni sua estensione pomeridiana che riguardi compiti e progetti ma non potrà mai rispondere ad un quesito come: “Come faccio a fare in modo che mia figlia sia ordinata?”.
Tratto da una storia vera.
In alcuni casi, purtroppo sempre più frequenti, a fronte di un discorso generale sull’andamento scolastico che può essere positivo o negativo, si chiede conto del singolo voto e ci si fa portavoce dell’insoddisfazione dell’alunno.
Comportamento deleterio, a mio parere sotto tutti i punti di vista e indistintamente per tutti i componenti della rete alunno-genitore-docente.
𝐔𝐧 𝐜𝐚𝐬𝐨 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐢𝐜𝐨𝐥𝐚𝐫𝐞, ma più frequente di quanto si potrebbe pensare, è la totale differenza di approccio e di richieste da parte di un genitore o dell’altro.
Questi incontri sono di solito per il docente del tutto stranianti: una mamma molto severa e precisa, attentissima ai voti del figlio, sempre presente ai colloqui e alle assemblee, che cerca il più possibile di mantenere i contatti con i singoli docenti.
Poi arriva il papà e ti chiede un’unica cosa:
“𝑀𝑖𝑜 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜 ℎ𝑎 𝑑𝑒𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑚𝑖𝑐𝑖 𝑖𝑛 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑒? 𝐶𝑜𝑚’𝑒̀ 𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑖 𝑠𝑢𝑜𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑎𝑔𝑛𝑖?”.
E a te, professore, sembra di parlare con la stessa famiglia ma di un universo parallelo.
Poi fai mente locale e ti rendi conto che questa domanda è molto confortante: qualcuno si preoccupa anche di come lo studente vive la scuola, non solo delle sue prestazioni e delle due fatiche scolastiche.
Menomale.
Questo finché la 𝐭𝐞𝐜𝐧𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐚 non si è prepotentemente inserita nella relazione con la famiglia.
Da una parte, il sistema per cui un genitore ha modo di contattare via mail o tramite messaggio del registro elettronico il docente, ha in parte modificato questo approccio personale, creando una facilità di comunicazione, che va a rendere fin troppo ripetuto l’intervento dei genitori in questioni che riguardano la relazione tra docente e alunno.
Con manifesta deresponsabilizzazione dei ragazzi, quasi sempre “protetti” da mamma e papà.
Dall’altra, a seguito della diffusione del Covid, i colloqui sono stati trasposti su piattaforma online, in qualche caso anche con durata ridotta.
Va da sé che venga meno l’impostazione diretta e fisica della relazione docente/genitore, con tutte le componenti non verbali del caso- nella pratica non percepibili attraverso uno schermo- e in qualche caso con l’intromissione di elementi terzi di vario genere, dagli animali domestici, al corriere, al vicino che si è chiuso fuori casa e via di seguito, sui quali oramai si potrebbe scrivere un romanzo comico.
La brevità della chiamata inoltre, crea altri tipi di difficoltà, per le quali se mai ci fossero problemi nella connessione il tutto si ridurrebbe a dei saluti stringati e qualora invece ci fossero delle serie difficoltà, si dovrebbe comunque rinviare ad un ulteriore incontro, generalmente pomeridiano e di durata imprecisata.
Un approccio genitoriale che accomuna tutti i tempi, i luoghi scolastici e le modalità di azione è quello dei 𝐠𝐞𝐧𝐢𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐬𝐢 𝐟𝐚𝐧𝐧𝐨 𝐦𝐚𝐢 𝐯𝐞𝐝𝐞𝐫𝐞.
Si tratta indistintamente di famiglie di ragazzi bravi o meno bravi, con fatiche o meno e le motivazioni possono variare moltissimo.
A questo punto, da parte del Consiglio di classe e soprattutto del Coordinatore, che se ne fa portavoce inizia l’inseguimento.
Mail, messaggi da registro, in qualche caso negativo note, chiamate, lettere di profitto, richieste di incontri con tutti i docenti e con varie figure di mediazione, psicologi, neuropsichiatri e chi più ne ha più ne metta.
A volte si riesce a raggiungerli, a volte dopo tempi lunghissimi, a volte no.
Una fatica.
Chi ne fa le spese?
Generalmente lo studente, che se immaturo e indisciplinato ignora la cosa, gioendo al contempo della mancata comunicazione e se al contrario particolarmente maturo, deve a quel punto farsi carico del ruolo di messaggero e come un novello Hermes, calzare le sue Converse alate e andare a recuperare i genitori.
C’è infine, 𝐥𝐚 𝐫𝐞𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐩𝐫𝐨𝐟𝐢𝐜𝐮𝐚.
Non quella semplicemente pacifica di accettazione del proprio ruolo, che evita al contempo le intromissioni, ma quella che prevede una seria collaborazione.
Docente e famiglia fanno in modo di seguire una linea comune di intervento, basata sulla condivisione di elementi positivi e negativi e sulla coerenza nel rispetto reciproco, senza ingerenze nel ruolo altrui e facendosi carico ognuno del proprio “pezzo”.
A quel punto, anche l’alunno si sentirà accompagnato ma responsabile della sua parte di strada e proseguire, sapendo di poter contare su una rete forte e coesa, se mai dovesse cadere.
Nella pratica è molto difficile che questo succeda e costa tanta fatica e impegno per tutte le parti coinvolte.
𝑃𝑒𝑟𝑜̀ 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑜𝑙𝑡𝑎 𝑎𝑐𝑐𝑎𝑑𝑒, 𝑒𝑑 𝑒̀ 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑚𝑎𝑔𝑖𝑎. .
Articolo e immagine di 2021 © Valentina Finocchiaro 26 gennaio 2021
𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥 𝐛𝐲 𝐂𝐡𝐢𝐚𝐫𝐚
𝐂𝐎𝐌𝐔𝐍𝐈𝐂𝐀𝐑𝐄 𝐁𝐄𝐍𝐄 𝐏𝐄𝐑 𝐂𝐎𝐒𝐓𝐑𝐔𝐈𝐑𝐄 𝐑𝐄𝐋𝐀𝐙𝐈𝐎𝐍𝐈 𝐈𝐍 𝐂𝐋𝐀𝐒𝐒𝐄 (𝐄 𝐍𝐎𝐍 𝐒𝐎𝐋𝐎)
𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑔𝑛𝑎𝑛𝑡𝑖, 𝑜𝑙𝑡𝑟𝑒 𝑎𝑙 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑜 𝑑𝑖𝑑𝑎𝑡𝑡𝑖𝑐𝑜, 𝑠𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑠𝑝𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑐ℎ𝑖𝑎𝑚𝑎𝑡𝑖 𝑎 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑛𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑓𝑎𝑐𝑖𝑙𝑖𝑡𝑎𝑡𝑜𝑟𝑖 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑐𝑜𝑛 𝑙’𝑜𝑏𝑖𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑜 𝑑𝑖 𝑐𝑟𝑒𝑎𝑟𝑒 𝑢𝑛 𝑐𝑙𝑖𝑚𝑎 𝑠𝑒𝑟𝑒𝑛𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑔𝑟𝑢𝑝𝑝𝑜 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑒. 𝐿𝑎 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑒 𝑖𝑛𝑓𝑎𝑡𝑡𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑟𝑖𝑒𝑠𝑐𝑒 𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑐𝑒𝑝𝑖𝑟𝑠𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑞𝑢𝑎𝑑𝑟𝑎 𝑐ℎ𝑖𝑎𝑚𝑎𝑡𝑎 𝑎 𝑟𝑎𝑔𝑔𝑖𝑢𝑛𝑔𝑒𝑟𝑒 𝑜𝑏𝑖𝑒𝑡𝑡𝑖𝑣𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖 𝑒 𝑎𝑙𝑙’𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟𝑛𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑒 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑠𝑖𝑛𝑔𝑜𝑙𝑜 𝑠𝑖 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒 𝑖𝑛𝑡𝑒𝑔𝑟𝑎𝑛𝑡𝑒, 𝑒̀ 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑒 𝑑𝑜𝑣𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑙𝑎𝑣𝑜𝑟𝑎𝑛𝑜 𝑐𝑜𝑛 𝑚𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜𝑟 𝑓𝑒𝑙𝑖𝑐𝑖𝑡𝑎̀, 𝑚𝑜𝑡𝑖𝑣𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑠𝑜𝑑𝑑𝑖𝑠𝑓𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑝𝑟𝑜𝑓𝑖𝑡𝑡𝑜. 𝑆𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑠𝑒́ 𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑔𝑙𝑖 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑖, 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑔𝑙𝑖 𝑖𝑛𝑒𝑣𝑖𝑡𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑙𝑖𝑡𝑡𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑙𝑒 𝑟𝑒𝑙𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑢𝑚𝑎𝑛𝑒 ℎ𝑎𝑛𝑛𝑜 𝑖𝑛 𝑠𝑒́ 𝑖𝑛 𝑜𝑐𝑐𝑎𝑠𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑐𝑟𝑒𝑠𝑐𝑖𝑡𝑎, 𝑎𝑖𝑢𝑡𝑎 𝑔𝑙𝑖 𝑠𝑡𝑢𝑑𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑎𝑑 𝑎𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑢𝑛 𝑟𝑒𝑛𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑚𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑒𝑠𝑠𝑖𝑣𝑜, 𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑎𝑝𝑝𝑟𝑒𝑛𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑒̀ 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑢𝑛𝑎 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑐𝑜𝑔𝑛𝑖𝑡𝑖𝑣𝑎, 𝑚𝑎 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎𝑡𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑒𝑚𝑜𝑡𝑖𝑣𝑎.
𝐐𝐮𝐚𝐥𝐢 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐥𝐞 𝐜𝐥𝐚𝐬𝐬𝐢 𝐜𝐡𝐞 “𝐟𝐮𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐚𝐧𝐨”? 𝐂𝐡𝐞 𝐫𝐮𝐨𝐥𝐨 𝐡𝐚 𝐥’𝐢𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐧𝐭𝐞?
Avere a che fare con un gruppo di 20/25 adolescenti contemporaneamente e che vivono insieme nella classe la maggior parte della loro vita sociale in un momento della loro crescita significa che in attimo ti trasformi da “semplice” insegnante in psicologo, avvocato, giudice, infermiere... soprattutto acquisisci una serie di abilità salomoniche o degne del giudice Sante Licheri per dirimere questioni che per loro sono vitali o “di principio”, per consolare amicizie e amori che finiscono e che sono più importanti sicuramente di quella fantastica lezione che hai preparato, ma soprattutto devi sedare tutta quella serie di invidie, coalizioni, gelosie che inevitabilmente accadono.
Siete mai entrati in una classe dove i due “leader” e i conseguenti adepti sono riusciti a creare un’atmosfera che nemmeno nel Bronx? Il clima di silenzio e tensione palpabile? Ecco a me è successo... e mi prendevo male ogni volta che dovevo entrare in quelle classi. Alla pari, ci sono miracoli inclusivi per cui le lezioni scorrono veloci e tutti parlano. Obiettivo dell’insegnante è un programmatico lavoro quindi per passare da situazioni A a situazioni B per un motivo molto semplice. Nella situazione B ci si diverte mentre si lavora insieme e si apprende meglio. Senza quella condizione di partenza l’intero percorso risulterà di una fatica immane.
Frasi tipiche da situazione A:
“Profeeee... perché a lei ha dato 8 e a me 8 -?”
“Zitta tu che non capisci niente”
“Profeee perché lei può usare gli schemi?”
“Profeee, quella di matematica non mi capisce!”
“Hai visto come si è vestita quella?”
“Hai visto che foto ha messo in IG?”
“Sai che tizia si è comprata i follower?”
“Non ti sei presentata alle programmate e hai messo nei casini la classe, sei sempre la solita.”
“
Se parli con lei non parli più con me”
“Profe... mi ha lasciato il fidanzato ed è andato con Caia”.
E potrei continuare con una lunga serie di frasi maschili già improntate sul “chi ce l’ha più lungo”, metaforicamente parlando ovviamente.
Troppa competitività nella scuola, troppa già a partire dalle scuole primarie e medie. Spesso avvallata dagli insegnanti, spesso non monitorata a dovere dagli insegnanti, spesso gli insegnanti non sanno che pesci pigliare e preferiscono un “lasciamo perdere, che se la sbrighino da soli che io sono qui per insegnare.” E invece purtroppo no: la scuola è una comunità educante giuridicamente, quindi che ci piaccia o meno alcune responsabilità educative, soprattutto di prevenzione e di creazione di relazioni positive all’interno del gruppo classe, ce le dobbiamo prendere.
𝐐𝐮𝐚𝐥𝐢 𝐬𝐭𝐫𝐮𝐦𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐡𝐚, 𝐪𝐮𝐢𝐧𝐝𝐢, 𝐚 𝐝𝐢𝐬𝐩𝐨𝐬𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐮𝐧 𝐩𝐫𝐨𝐟𝐞𝐬𝐬𝐨𝐫𝐞?
Io ho identificato cinque spunti, ma ammetto di partire avvantaggiata rispetto ad alcuni colleghi perché insegno scienze umane e tecniche della comunicazione... di conseguenza, negli anni, ho potuto sperimentare una serie di azioni apprese in parte dalla teoria, in buona parte dalla pratica e dall’aver sempre lavorato in equipe più o meno grandi, dove il confronto era necessario e la logica sottesa al raggiungimento del risultato era la collaborazione, e infine da un continuo lavoro su me stessa per affinare alcune qualità umane.
𝟏. 𝐂𝐨𝐧𝐨𝐬𝐜𝐞𝐫𝐞 𝐥𝐞 𝐝𝐢𝐧𝐚𝐦𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐢 𝐛𝐚𝐬𝐞 𝐝𝐞𝐢 𝐠𝐫𝐮𝐩𝐩𝐢*.
L’ambiente di lavoro scolastico non è soltanto un luogo in cui si svolgono determinate attività, ma è soprattutto un ambiente dato da un gruppo di persone che interagiscono e comunicano seguendo spesso l’orientamento di un leader. Riconoscere nei propri studenti chi ha caratteristiche maggiori di leadership e chi di gregario, consente all’insegnante di lavorare per fare in modo che non si acuisca la distanza tra leader e gruppo, ma anzi, si sposti l’asse verso una gestione di gruppo sempre più collegiale e dove l’unico leader strumentale e socio-emotivo venga riconosciuto nella figura dell’insegnante stesso che in questo modo avrà tutte le carte in regola per gestire il conflitto in modo costruttivo. Nel conflitto costruttivo infatti ognuno si sente libero di esprimere la propria opinione perché è consapevole che le critiche non saranno rivolte alla persona ma all’idea, all’oggetto della discussione, in modo tale da trovare una soluzione positiva al problema. Insegnare ai ragazzi l’arte della negoziazione vuol dire che i conflitti vanno riconosciuti e non ignorati, vanno affrontati con tempestività e devono prevedere il coinvolgimento di tutta la classe.
𝟐. 𝐋𝐚 𝐜𝐨𝐦𝐮𝐧𝐢𝐜𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞𝐜𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐜𝐚**
La comunicazione ecologica nasce da un’intuizione di Jerome L. Kiss, il quale sostiene che per sviluppare relazioni umane positive bisogna seguire i principi dell’ecologia: è possibile coltivare le risorse di ogni persona rispettandone le diversità in modo tale che ognuno possa agire cooperando con gli altri per un obiettivo comune. Quante diversità ci sono in una classe? Tantissime! Trovare un obiettivo comune facilita la coesione del gruppo, ma è importante utilizzare nel lessico condiviso parole come: crescita, esposizione libera di idee, individualità, gruppo, creatività, parlando in prima persona e evitando dogmatismi e stereotipi, bandendo critiche negative, valorizzando invece il lavoro altrui e del gruppo, insegnando ai ragazzi che le parole hanno sempre un peso, e per questo vanno scelte con attenzione.
𝟑. 𝐈𝐥 𝐝𝐢𝐚𝐥𝐨𝐠𝐨**
Il dialogo aiuta a conoscere se stessi e la realtà che ci circonda e prevede alcune azioni ben precise: saper fare domande, ascoltare in modo empatico e infine dando una restituzione di quanto detto. Molti conflitti nascono infatti da fraintendimenti comunicativi. Insegnare ai ragazzi a fermarsi e ad ascoltare cosa il compagno o l’insegnante sta dicendo, aiuta anche a riflettere su se stessi e sulle proprie domande e risposte.
𝟒. 𝐋𝐚 𝐯𝐚𝐥𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐩𝐨𝐬𝐢𝐭𝐢𝐯𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐩𝐚𝐫𝐨𝐥𝐞**
Una comunicazione diventa efficace quando, pur partendo da situazioni anche negative, le parole assumono invece una valenza positiva: la scelta dei termini deve orientare gli studenti verso certezze di soluzione, coinvolgimento e spirito di squadra utilizzando tempi verbali al presente e al futuro. “Ragazzi vi propongo questa attività!” “Ragazzi, abbiamo delle possibilità alternative che ci porteranno al successo”...
𝟓. 𝐀𝐭𝐭𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐚𝐥 𝐧𝐨𝐧 𝐯𝐞𝐫𝐛𝐚𝐥𝐞!
Il corpo parla molto di più che non le stesse parole. I miei ragazzi ogni tanto mi dicono che ho gli occhi anche “dietro”, nel senso che li vedo pur non guardandoli direttamente. Oppure che li ho letti nel pensiero. Li ho
rassicurati che non sono una strega, semplicemente sono molto attenta al tono di voce, alle posture, ai loro sguardi, ai loro micro movimenti... e di conseguenza riesco a percepire cosa si sta muovendo intorno a me. E li invito a fare lo stesso osservandomi. Capirsi con lo sguardo è uno degli obiettivi che mi do sempre quando entro in classe, perché vuol dire che ho ottenuto ciò che mi sta più a cuore: l’essere sintonizzati, l’essere riuscita a portarli sulla stessa lunghezza d’onda, per procedere come gruppo classe nell’acquisizione di competenze sempre nuove.
Fonti utilizzate:
*E. Clemente, R. Danieli, PENSIERO, RELAZIONE, METODO, PARAVIA EDIZIONI
**I. Porto, G. Castoldi, TECNICHE DI COMUNICAZIONE PER L’ACCOGLIENZA TURISTICA, HOEPLI EDIZIONI
Articolo e immagine di 2020 © Chiara Resenterra 22 dicembre 2020
𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥 𝐛𝐲 𝐕𝐚𝐥𝐞
𝐋𝐄 𝐏𝐀𝐑𝐎𝐋𝐄 𝐒𝐎𝐍𝐎 𝐕𝐈𝐕𝐄
𝑫𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒊𝒎𝒑𝒐𝒓𝒕𝒂𝒏𝒛𝒂 𝒂𝒍𝒍𝒆 𝒑𝒂𝒓𝒐𝒍𝒆?
𝑉𝑖𝑣𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑚𝑜𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑐𝑜 𝑖𝑛 𝑐𝑢𝑖 𝑠𝑖 𝑑𝑖𝑐𝑒 𝑑𝑖 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑒 𝑝𝑜𝑖 𝑖𝑙 𝑠𝑢𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎𝑟𝑖𝑜, 𝑖𝑛 𝑐𝑢𝑖 𝑙𝑎 𝑝𝑒𝑠𝑎𝑛𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑚𝑒𝑑𝑖𝑎𝑡𝑖𝑐𝑎 𝑠𝑖 𝑓𝑎 𝑠𝑒𝑛𝑡𝑖𝑟𝑒 𝑠𝑝𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑒𝑑 𝑒̀ 𝑑𝑜𝑣𝑢𝑡𝑎, 𝑖𝑛 𝑝𝑎𝑟𝑡𝑒, 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑎𝑔𝑙𝑖 𝑠𝑡𝑟𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑐ℎ𝑒 𝑢𝑡𝑖𝑙𝑖𝑧𝑧𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑒𝑠𝑝𝑟𝑖𝑚𝑒𝑟𝑐𝑖.
𝑉𝑒𝑛𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑐𝑖𝑛𝑎𝑡𝑖, 𝑎 𝑣𝑜𝑙𝑡𝑒 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑚𝑎𝑙𝑔𝑟𝑎𝑑𝑜, 𝑖𝑛 𝑑𝑖𝑠𝑐𝑢𝑠𝑠𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑆𝑜𝑐𝑖𝑎𝑙 𝑐ℎ𝑒 𝑐𝑖 𝑙𝑎𝑠𝑐𝑖𝑎𝑛𝑜 𝑖𝑛𝑠𝑜𝑑𝑑𝑖𝑠𝑓𝑎𝑡𝑡𝑖 𝑒 𝑛𝑎𝑣𝑖𝑔ℎ𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑖𝑛𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑟𝑒𝑡𝑒, 𝑝𝑒𝑟 𝑝𝑜𝑖 𝑛𝑎𝑢𝑓𝑟𝑎𝑔𝑎𝑟𝑒 𝑓𝑟𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑒𝑛𝑢𝑡𝑖 “𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑛𝑢𝑜𝑣𝑖” 𝑜 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑖 𝑝𝑎𝑠𝑠𝑎𝑟𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑡𝑎𝑙𝑖, 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑟𝑖𝑝𝑒𝑡𝑢𝑡𝑖.
𝐿𝑎 𝑠𝑜𝑙𝑢𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒?
𝑺𝑪𝑬𝑮𝑳𝑰𝑬𝑹𝑬 𝑳𝑬 𝑷𝑨𝑹𝑶𝑳𝑬 𝑪𝑯𝑬 𝑼𝑺𝑰𝑨𝑴𝑶.
𝐿𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑣𝑖𝑣𝑒 𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑒 𝑒 𝑠𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑟𝑒𝑠𝑝𝑜𝑛𝑠𝑎𝑏𝑖𝑙𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑙𝑜𝑟𝑜 𝑒𝑓𝑓𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑀𝑜𝑛𝑑𝑜..
Fino all’avvento della rete, le parole dette o scritte erano dirette a QUALCUNO in particolare.
Dovendo scegliere “a chi dire che cosa”, era necessario operare anche una riflessione, rispetto alle parole da utilizzare.
Malgrado l’immediatezza del postare un pensiero su un Social, l’accesso a queste parole è spesso in differita: la persona che le ha scritte ha nel frattempo già vissuto un altro pezzo di vita, è andato avanti.
Inoltre quasi mai, se non nella nostra mente, ciò che scriviamo è destinato a UNA persona ma arriva inevitabilmente ad alcune persone -in questo caso, i famosi “amici” dei Social- che in realtà possono rappresentare un grande insieme variegato per quanto riguarda genere, numero ed età.
Per inciso, forse questo è il motivo per cui far capire ai ragazzi il significato di registro linguistico e che esistono occasioni d’uso non solo per i vestiti ma anche per le parole, oggi è tanto difficile.
Inoltre, anche le reazioni a quello che leggiamo diventano strane: un argomento che ci coglie nel vivo tanto da scrivere un post, quando viene commentato, spesso dopo ore o addirittura giorni, ha già perso per noi l’interesse che aveva prima.
La 𝐝𝐢𝐬𝐜𝐮𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐒𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥 diventa paradossale, e a tratti incomprensibile, perché perde quei caratteri di istantaneità e reciprocità immediata, tipici dell’argomentazione dal vivo: talvolta finisce per essere conclusa e cancellata da moderatori della pagina, oppure termina senza una reale comprensione dello scambio avvenuto, da entrambe le parti.
𝐿𝑎 𝑣𝑒𝑟𝑎 𝑖𝑚𝑚𝑒𝑑𝑖𝑎𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎 𝑠𝑖 𝑡𝑟𝑜𝑣𝑎 𝑜𝑔𝑔𝑖 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝐩𝐚𝐫𝐥𝐚𝐧𝐝𝐨 𝑐𝑜𝑛 𝑙𝑒 𝑝𝑒𝑟𝑠𝑜𝑛𝑒.
Sulla rete siamo subissati dalle parole, ogni ora di ogni giorno.
Quelle importanti si svuotano di significato, quelle frivole acquisiscono un’importanza mai avuta prima, quelle nuove vengono create continuamente.
Questo ammasso di vocaboli può scatenare una percezione particolare, un sentimento di oppressione o impossibilità di discernimento.
Una sensazione che ho ritrovato perfettamente passando alle parole in musica, ascoltando un ragazzo, che forse tanto ragazzo non è, con il suo pezzo “Attenti al loop”.
Nel brano N.A.I.P., questo il nome dell’artista, critica la facilità con cui si “seguono” persone sulle pagine social perché “seguite da un sacco di gente, seguita da un sacco di gente” e l’impossibilità di star dietro ad un’industria musicale del nuovo, che se da una parte permette di accedere a contenuti sempre inediti, dall’altra ne crea per ripetizione e -oltre al danno la beffa- può causare un senso di frustrazione alla “gente”, per l’incapacità della persona, in quanto umana, di scoprire e conoscere davvero, o anche solo di ricordare, tutti questi contenuti.
La soluzione allora qual è?
𝐒𝐂𝐄𝐆𝐋𝐈𝐄𝐑𝐄.
Quello che ci rende umani è la capacità di discernere ciò che è interessante per noi, ciò che ci può essere utile, ciò che ci appassiona e ci può far crescere e decidere di approfondire solo questi argomenti.
Con le parole credo funzioni più o meno così.
Spesso si usano con noncuranza e con trascuratezza si scrivono.
In particolare, sui Social i nostri pensieri vengono lanciati in rete su pagine -potenzialmente- seguite da migliaia di persone, a volte senza una reale consapevolezza da parte di chi le sta utilizzando, specialmente se l’autore, è un adolescente.
Ho un grande timore rispetto all’approccio dei miei studenti al Mondo là fuori: che non abbiano reale possibilità di scelta dei termini da usare.
Spesso vedo in loro -rappresentanti perfetti degli adolescenti di oggi- una noncuranza rispetto a quanto dicono e a come lo dicono e in modo ancor più grave per me, l’indifferenza rispetto alla scarsezza e all’approssimazione che dimostrano parlando e scrivendo.
Se il lessico di una persona è limitato, come fa a scegliere le parole giuste?
Sempre più spesso invito i ragazzi a cercare il significato delle parole che non conoscono – e che finiscono inevitabilmente per ripetere, senza sapere davvero cosa vogliano dire- pratica che per noi pre-Millennials aveva una naturale prosecuzione nell’apertura di un dizionario.
Quante volte a una domanda precisa rispondono con giri di parole, finendo per arrendersi e concludere che non sanno come dire quello che stanno pensando: non trovano le parole.
E quante volte ancora dichiaro che le parole “cosa” e “fare” dovrebbero, secondo il mio modesto parere, essere abolite e a queste si dovrebbero preferire termini più specifici, in modo da risultare così, per noi stessi e per gli altri, meno indifferenti rispetto a quello che diciamo o scriviamo.
𝐂𝐡𝐢 𝐩𝐮𝐨̀ 𝐚𝐢𝐮𝐭𝐚𝐫𝐞 𝐢 𝐫𝐚𝐠𝐚𝐳𝐳𝐢 𝐚 𝐬𝐜𝐞𝐠𝐥𝐢𝐞𝐫𝐞 𝐥𝐞 𝐩𝐚𝐫𝐨𝐥𝐞 𝐠𝐢𝐮𝐬𝐭𝐞?
Senza dubbio un ruolo importantissimo è giocato in questo percorso di crescita dalla scuola.
Da sempre i docenti spingono gli alunni a utilizzare con consapevolezza il lessico specifico delle proprie materie e non tollerano l’approssimazione, quando si tratta di teoremi matematici o teorie scientifiche o sociali, filosofia, letteratura, e via dicendo.
Come insegnanti, ci troviamo a correggere i ragazzi nell’utilizzo di parole che hanno solo sentito dire oppure, e ancora peggio, parole che a scuola sono a dir poco inappropriate.
Personalmente, penso alla nostra modalità adulta di approccio all’ambiente scolastico come ad un parlare pulito, e a volte mi rendo conto di poter sembrare bacchettona, ma credo che l’abitudine a interloquire in un certo modo, corretto e mondato – e perché no? gentile- anche al di fuori del contesto scolastico possa essere una buona pratica e rappresentare un buon esempio.
Intendiamoci, anche a me capita di usare termini che definiremmo “parolacce”, e ritengo che usarle fuori contesto o con particolare enfasi sia del tutto funzionale ad ottenere un risultato, una reazione.
Si tratta pur sempre di 𝐮𝐧’𝐚𝐛𝐢𝐭𝐮𝐝𝐢𝐧𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐜𝐞𝐥𝐭𝐚, alla cura con cui si usano certe parole e se ne evitano altre.
Qualcuno potrebbe chiedersi a questo punto: “Perché dovremmo scegliere con cura i vocaboli che usiamo?”
Dopotutto oggi si tende ad accettare un linguaggio, che fino a poco tempo fa sarebbe stato inaccettabile, non solo sui Social ma nelle varie situazioni della vita.
Dovremmo selezionare le parole che usiamo, perché queste hanno da sempre un 𝐏𝐎𝐓𝐄𝐑𝐄.
“Cosa” diciamo e “come” lo diciamo creano per l’appunto, emozioni, reazioni, sentimenti in chi legge o ascolta.
𝐋𝐞 𝐩𝐚𝐫𝐨𝐥𝐞 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐯𝐢𝐯𝐞.
Hanno una risonanza e un effetto concreto nella realtà e provocano il mutare di contesti, situazioni, riflessioni, vite.
Dovremmo scegliere con cura le persone con cui condividere le NOSTRE PAROLE.
Concludo con la riflessione di uno psicanalista e docente, conosciuto ai più per le sue molte apparizioni in TV, dove non a caso ha spesso parlato di 𝒍𝒆𝒔𝒔𝒊𝒄𝒐:
Massimo Recalcati..
“𝐿𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑣𝑖𝑣𝑒, 𝑒𝑛𝑡𝑟𝑎𝑛𝑜 𝑛𝑒𝑙 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜, 𝑏𝑢𝑐𝑎𝑛𝑜 𝑙𝑎 𝑝𝑎𝑛𝑐𝑖𝑎: 𝑝𝑜𝑠𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑝𝑖𝑒𝑡𝑟𝑒 𝑜 𝑏𝑜𝑙𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑠𝑎𝑝𝑜𝑛𝑒, 𝑓𝑜𝑔𝑙𝑖𝑒 𝑚𝑖𝑟𝑎𝑐𝑜𝑙𝑜𝑠𝑒. 𝑃𝑜𝑠𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑖𝑛𝑛𝑎𝑚𝑜𝑟𝑎𝑟𝑒 𝑜 𝑓𝑒𝑟𝑖𝑟𝑒. 𝐿𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑚𝑒𝑧𝑧𝑖 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖𝑐𝑎𝑟𝑒, 𝑙𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑒 𝑛𝑜𝑛 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑜𝑙𝑜 𝑖𝑙 𝑣𝑒𝑖𝑐𝑜𝑙𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙'𝑖𝑛𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒, 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑙𝑎 𝑝𝑒𝑑𝑎𝑔𝑜𝑔𝑖𝑎 𝑐𝑜𝑔𝑛𝑖𝑡𝑖𝑣𝑖𝑧𝑧𝑎𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑡𝑒𝑚𝑝𝑜 𝑣𝑜𝑟𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒 𝑓𝑎𝑟𝑐𝑖 𝑐𝑟𝑒𝑑𝑒𝑟𝑒, 𝑚𝑎 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜, 𝑐𝑎𝑟𝑛𝑒, 𝑣𝑖𝑡𝑎, 𝑑𝑒𝑠𝑖𝑑𝑒𝑟𝑖𝑜. 𝑁𝑜𝑖 𝑛𝑜𝑛 𝑢𝑠𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑙𝑖𝑐𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑙𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑒, 𝑚𝑎 𝑠𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑒, 𝑣𝑖𝑣𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑒 𝑟𝑒𝑠𝑝𝑖𝑟𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑒.”
“
L’ora di lezione” Massimo Recalcati, Einaudi, 2014, pag. 90
Articolo e immagine di 2020 © Valentina Finocchiaro 24 novembre 2020
𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥 𝐛𝐲 𝐂𝐡𝐢𝐚𝐫𝐚
“𝐒𝐄 𝐂𝐀𝐌𝐁𝐈 𝐋’𝐀𝐔𝐋𝐀, 𝐂𝐀𝐌𝐁𝐈 𝐋𝐀 𝐃𝐈𝐃𝐀𝐓𝐓𝐈𝐂𝐀”
(𝐂. 𝐅𝐫𝐞𝐢𝐧𝐞𝐭)
Credo che uno degli aspetti più trascurati quando si compie un’attenta progettazione didattica, sia il pensare con attenzione al setting didattico. Fateci caso, al massimo, e dopo almeno un paio di consigli di classe, si incomincia a ragionare quasi esclusivamente sull’assegnazione dei posti, quasi come se la gestione puntuale dell’intero spazio in cui i ragazzi trascorrono le loro mattinate sia data, o trovata, come qualcosa di immutabile nella scuola, o che quantomeno, non risulta mai essere al centro di un attento pensiero singolo (il setting può, meglio, dovrebbe cambiare a seconda delle discipline) e collegiale.
𝐒𝐞𝐭𝐭𝐢𝐧𝐠 𝐝𝐢𝐝𝐚𝐭𝐭𝐢𝐜𝐨 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐬𝐨𝐥𝐨 𝐥𝐞 𝐝𝐢𝐬𝐩𝐨𝐬𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐝𝐢 𝐚𝐫𝐫𝐞𝐝𝐢, 𝐦𝐚 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐢𝐥 𝐜𝐨𝐥𝐥𝐨𝐜𝐚𝐫𝐞 𝐞 𝐢𝐥 𝐜𝐨𝐥𝐥𝐨𝐜𝐚𝐫𝐬𝐢 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐬𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨 𝐢𝐧 𝐦𝐨𝐝𝐨 𝐭𝐚𝐥𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐟𝐚𝐜𝐢𝐥𝐢𝐭𝐢 𝐥’𝐚𝐩𝐩𝐫𝐞𝐧𝐝𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐞 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐚 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧 𝐚𝐦𝐛𝐢𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐚𝐜𝐜𝐨𝐠𝐥𝐢𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐜𝐡𝐢 𝐜𝐢 𝐯𝐢𝐯𝐞.
Ripensare il setting, quindi non si può ridurre in tempi attuali all’introduzione di sedie con rotelle o meno, pc e maxi schermi, ma richiede 𝐥’𝐨𝐜𝐜𝐡𝐢𝐨 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐠𝐫𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐢𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐭𝐫𝐚 𝐚𝐦𝐛𝐢𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐞 𝐩𝐫𝐨𝐠𝐫𝐚𝐦𝐦𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢𝐝𝐚𝐭𝐭𝐢𝐜𝐚.
Recentemente mi sono ritrovata a riflettere su tutto ciò, attribuendo finalmente un’importanza primaria all’ambiente in cui insegno, e la prima ispirazione mi è venuta creando un parallelismo mentale tra aula e set cinematografico, quale che, esattamente come ritengo le mie ore di insegnamento una serie di performance da protagonista di una serie tv, parimenti l’aula-set necessita che ogni elemento sia collocato nel punto giusto, quindi immaginato e pensato in funzione dell’attività-scena di apprendimento che io e i miei studenti ci apprestiamo a provare.
Figlia degna quale sono degli anni ’90, sono sempre rimasta affascinata dalla struttura dei college in stile Beverly Hills 90210, dove erano gli studenti a cambiare aula a seconda del corso che seguivano e della presenza degli armadietti singoli dove depositare gli effetti personali. Ho sempre trovato questo aspetto tremendamente utile ma, ahimè, poco utilizzato in Italia, fatto salvo forse per la scuola dell’infanzia.
Uno dei pochi regali che la situazione attuale ci ha portato, è stato probabilmente, però proprio porre attenzione, e soprattutto vincoli, nel ripensare gli spazi, un’occasione forse unica: agli studenti deve essere garantita la giusta distanza sociale, le aule hanno una capienza limitata, nuovi strumenti tecnologici dovrebbero entrare nelle classi, così come nuovi arredi (come i miei sognati armadietti singoli) trovano una loro collocazione all’interno delle scuole.
𝐄 𝐜𝐨𝐬𝐢̀, 𝐫𝐢𝐩𝐞𝐧𝐬𝐚𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐬𝐞𝐭𝐭𝐢𝐧𝐠 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚 𝐫𝐢𝐩𝐞𝐧𝐬𝐚𝐫𝐞 𝐥𝐚 𝐝𝐢𝐝𝐚𝐭𝐭𝐢𝐜𝐚.
Come predispongo lo spazio mentre spiego, in modo da favorire la capacità di concentrazione?
Come predispongo lo spazio mentre strutturo esercitazioni guidate o momenti di discussione per favorire il confronto e lo scambio comunicativo?
Come predispongo lo spazio nei momenti di verifica e restituzione delle valutazioni, per dare attenzione al singolo studente?
𝐌𝐚 𝐬𝐨𝐩𝐫𝐚𝐭𝐭𝐮𝐭𝐭𝐨... 𝐝𝐨𝐯𝐞 𝐝𝐞𝐜𝐢𝐝𝐨 𝐝𝐢 𝐜𝐨𝐥𝐥𝐨𝐜𝐚𝐫𝐦𝐢 𝐢𝐨 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐢𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐢𝐧 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐬𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨?
Credo che la famigerata cattedra sia ormai uno strumento che ha in sé qualcosa di obsoleto. Si può mantenere l’asimmetria data dal ruolo docente/discente puntando su altri fattori, soprattutto umani, come l’autorevolezza del ruolo e la capacità di gestione del gruppo. Imparare a percepirsi come un Team che sta lavorando insieme per raggiungere obiettivi e competenze aiuta anche l’insegnante a collocarsi nello spazio a seconda dell’attività proposta in classe.
E’ fattibile anche ai tempi del Covid? Credo proprio di sì. Gli strumenti, quali mascherine e giuste distanze, aiutano ad evitare la diffusione del virus, e a maggior ragione, se il contatto fisico è escluso, bisogna recuperare il contatto visivo, lo sguardo e la parola, le immagini proiettate e il materiale strutturato e pensato ad hoc... a disposizione di tutti, e non solo delle “prime file”, che esattamente come la cattedra, non hanno quasi più senso di esistere.
Come già detto in altri articoli, anche in questo caso, il bandolo della matassa è nelle mani della creatività di chi dirige il gioco nel contesto reale, con i mezzi che ha a disposizione, e con tutto sé stesso.
Articolo e foto di 2020 © Chiara Resenterra 27 ottobre 2020
𝐓𝐑𝐀 𝐑𝐄𝐒𝐏𝐎𝐍𝐒𝐀𝐁𝐈𝐋𝐈𝐓𝐀’ 𝐄 𝐑𝐈𝐒𝐎𝐑𝐒𝐄
Quando si inizia un nuovo anno scolastico, soprattutto per chi ha le classi prime, inizia sempre un percorso nuovo. Nuovo in realtà anche quando incontri di nuovo i tuoi studenti dopo l’estate. Gli adolescenti crescono e cambiano alla velocità della luce e così, e così, in ogni caso, ti trovi di fronte persone diverse e con bisogni differenti.
Quest’anno di novità a scuola ce ne sono molte, tra polemiche, disagi, pandemia o non pandemia, la verità è che qualcosa sta, per necessità, cambiando e deve cambiare. Questi “scossoni”, sono convinta, possono anche diventare opportunità per molti, per me sicuramente e la domanda che ho rivolto a me stessa a inizio anno è stata:
“𝑪𝒉𝒆 𝒕𝒊𝒑𝒐 𝒅𝒊 𝒊𝒏𝒔𝒆𝒈𝒏𝒂𝒏𝒕𝒆 𝒗𝒐𝒈𝒍𝒊𝒐 𝒆𝒔𝒔𝒆𝒓𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒊 𝒎𝒊𝒆𝒊 𝒂𝒅𝒐𝒍𝒆𝒔𝒄𝒆𝒏𝒕𝒊 𝒔𝒕𝒖𝒅𝒆𝒏𝒕𝒊?”
Credo che sia una domanda fondamentale che ogni tanto vada rispolverata, perché, se è vero che quando si inizia a lavorare si parte sempre con grande entusiasmo e grandi idee, e altresì vero, che il tempo, la routine, i programmi, possano indurre una sorta di pigrizia mentale anche nei docenti, e la tendenza a riproporre quanto da anni si svolge senza un vero ripensarsi, senza un vero cambiamento che stia al passo con lo scorrere e l’evolversi delle situazioni.
E così, mentre riflettevo sul da farsi nei primi giorni di scuola, sulle difficoltà determinate da distanze, mascherine, ecc... seduta sui gradini di accesso al mio balcone osservando fondamentalmente il nulla o il tutto che scorgo dall’ultimo piano della mia nuova casa, mi è arrivata in un insight la risposta:
“𝑽𝒐𝒈𝒍𝒊𝒐 𝒆𝒔𝒔𝒆𝒓𝒆 𝒖𝒏𝒂 𝑰𝑹𝑹: 𝑰𝒏𝒔𝒆𝒈𝒏𝒂𝒏𝒕𝒆 𝑹𝒊𝒔𝒐𝒓𝒔𝒂 𝑹𝒆𝒔𝒑𝒐𝒏𝒔𝒂𝒃𝒊𝒍𝒆”
[la mia mente incomincia a ragionare per acronimi e a inventarne, questo potrebbe essere grave, in quanto tutta la scuola è ormai un insieme infinito di acronimi, oppure, potrebbe essere divertente, significa solo che sto imparando finalmente anche lo scolastichese burocratico che ho sempre odiato.]
Ma, scherzi a parte, le parole che meritano una riflessione sono proprio Risorse e Responsabilità.
Uno dei nodi centrali sta nel fatto che la scuola è un’istituzione estremamente variegata dal punto di vista delle risorse materiali e culturali a cui da una parte studenti e famiglie possiedono o hanno accesso, dall’altra le scuole stesse possiedono o hanno accesso parimenti. Non possiamo nasconderci dietro immagini utopistiche: la società attuale in cui viviamo è molto molto complessa e diversificata, la forbice economica e culturale, soprattutto nei momenti di crisi, tende ad ampliarsi e a portare a galla tutte le contraddizioni del nostro sistema sociale. Il rischio vero è che se fondiamo la scuola solo sull’accesso a risorse materiali ed economiche avremo scuole (e studenti) di serie A, scuole e studenti di serie B, ecc...
Io, quindi, alla fine, vorrei essere 𝐮𝐧’𝐢𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐚𝐬𝐜𝐢𝐚 𝐮𝐧 𝐬𝐞𝐠𝐧𝐨 𝐫𝐞𝐬𝐩𝐨𝐧𝐬𝐚𝐛𝐢𝐥𝐞 nelle vite dei miei alunni... potranno dimenticarsi com’era la classe, i voti che hanno preso, e sicuramente si dimenticheranno nel corso della vita (esattamente come è successo a me) anche tutta una serie di nozioni e contenuti, ma vorrei che si ricordassero della bellezza dell’apprendere, perché se mantieni viva quella cosa lì, allora sì, daremo a tutti la possibilità reale di realizzare se stessi, e una società di adulti realizzati sarà sicuramente una società migliore.
Quindi cosa possiamo fare? Quale tipo di insegnante dovremmo essere per fare la differenza?
Tra le tante riflessioni che mi affioravano nella testa quella sera sul balcone, mi è apparsa l’immagine della
𝐒𝐜𝐮𝐨𝐥𝐚 𝐝𝐢 𝐁𝐚𝐫𝐛𝐢𝐚𝐧𝐚 di 𝐝𝐨𝐧 𝐋𝐨𝐫𝐞𝐧𝐳𝐨 𝐌𝐢𝐥𝐚𝐧𝐢. Perché? Perché la scuola di Barbiana fu un’esperienza didattica e innovativa nata dalla Risorsa Umana che fu don Milani, laddove di risorse materiali e culturali ce ne erano assai poche. A dimostrazione del fatto che si può fare anche laddove le condizioni di partenza sembrano assai sfavorevoli. Il motto, noto a tutti, della scuola è “I Care”, mi importa. Una scuola privata che mise al centro i bisogni di studenti, allora, lavoratori e che quindi andavano a scuola dopo aver lavorato nei campi, ma che scrissero un libro e la celeberrima “Lettera a una professoressa” nella quale si spiegavano i principi che costituivano la scuola e al contempo fu un atto di accusa verso il modello tradizionale di scuola.
L’attualità credo che stia proprio in questo I care, in questa capacità di innovazione, che prima ancora che nelle mani del legislatore è nelle mani dei singoli docenti. [Anche perché, attualmente, se si rileggono i programmi ministeriali del MIUR, il docente italiano ha massima libertà di impostare la sua didattica come meglio crede, superando un modello nozionistico che, ahimè, è ancora imperante]
Ecco, quindi, 𝐥𝐚 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 𝐑𝐈𝐒𝐎𝐑𝐒𝐀 𝐩𝐞𝐫 𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐚𝐥𝐮𝐧𝐧𝐨 𝐝𝐨𝐯𝐫𝐞𝐛𝐛𝐞 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐢𝐥 𝐩𝐫𝐨𝐩𝐫𝐢𝐨 𝐢𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐧𝐭𝐞, un docente possiede armi potentissime: il suo sapere, la sua esperienza, la sua creatività, il suo prendersi a cuore le situazioni più disparate. E da qui l’immediato collegamento alla parola Responsabilità: non è la società generica di adulti che ha la responsabilità sulle nuove generazioni, ma la singola persona adulta che con il suo comportamento responsabile diventa esempio credibile [e si spera, seguibile] per i ragazzi. Quindi il primo compito di chi insegna è questa responsabilità educativa che non sta scritta in nessun contratto, ma che è la prima risorsa vera che la scuola possiede.
𝐋𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐨𝐥𝐚 𝐑𝐄𝐒𝐏𝐎𝐍𝐒𝐀𝐁𝐈𝐋𝐈𝐓𝐀’ 𝐝𝐞𝐫𝐢𝐯𝐚 𝐝𝐚𝐥 𝐥𝐚𝐭𝐢𝐧𝐨, 𝐜𝐨𝐧 𝐢𝐥 𝐬𝐢𝐠𝐧𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐫𝐢𝐬𝐩𝐨𝐧𝐝𝐞𝐫𝐞, 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐬𝐚 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐜𝐚𝐩𝐚𝐜𝐢𝐭𝐚̀ 𝐞 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐢𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐝𝐢 𝐝𝐚𝐫𝐞 𝐫𝐚𝐠𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐢𝐧 𝐬𝐢𝐭𝐮𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐢𝐜𝐨𝐥𝐚𝐫𝐢. Chi più di un insegnante si trova quindi a dare risposte se ha saputo accogliere e ravvivare il desiderio di apprendere nei suoi studenti?
Articolo e foto di 2020 © Chiara Resenterra - 22 settembre 2020
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LA FENICE
Nel biennio dei licei è comparsa da qualche anno una materia, "𝐠𝐞𝐨𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚", sempre fonte di dubbi per i genitori e di difficoltà di gestione per i docenti.
Questa materia si propone di recuperare il poco spazio dato alla geografia nelle scuole superiori.
Questo, a quanto sembra, è già ridotto nelle classi inferiori, data la scarsa conoscenza generale delle basi geografiche non solo mondiali ma addirittura italiane che contraddistingue un numero ormai preoccupante di studenti.
Alle superiori purtroppo introdurre la geostoria non risolve il problema: generalmente la geografia è ridotta a un corollario della storia e chiaramente non ha comunque lo spazio che meriterebbe.
Unificare le materie implica la necessaria riduzione degli argomenti nel programma e di fatto il residuo di una semplice contestualizzazione spaziale degli eventi storici affrontati durante l’anno.
Per fortuna, alcuni argomenti relativi alla geografia umana si possono recuperare in forma discorsiva e si possono rendere più pertinenti, collocandoli secondo coordinate geografiche precise nel mondo di oggi.
Uno di questi argomenti è quello delle 𝐫𝐢𝐬𝐨𝐫𝐬𝐞.
Generalmente la prima distinzione che si fa è quella tra risorse rinnovabili e non rinnovabili.
Questi concetti vanno sicuramente nella direzione di qualcosa che evidentemente travalica i confini della vita umana e si colloca al livello della vita del Pianeta.
Riflettere sulle risorse, però, mi porta a chiedermi: quali sono le mie risorse? non potendo essere infinite, quanto sono “rinnovabili”?
La prima parte di questo anno 2020 ha sicuramente messo a dura prova le risorse di insegnanti ed alunni, dal punto di vista dell’impegno costante, della viva presenza, del portare a termine percorsi di crescita efficace anche a distanza.
In campo sono state messe in gioco anche le risorse dei genitori, sicuramente in precedenza più ai margini rispetto al percorso scolastico e ora interpellati nel vivo, non solo dei compiti ma anche delle lezioni stesse.
In tanti momenti la sensazione è stata quella di non farcela, soprattutto quando è stato necessario ripensare alle reali possibilità di un percorso a distanza e riformulare i programmi già previsti a settembre 2019.
Di fronte a malfunzionamenti, disagio, inadempienze, ritrosie, fughe e sparizioni, fatiche di vario genere e chiaramente in modo più significativo il Covid stesso, forse molti hanno avuto proprio la sensazione di non avere più risorse.
E ora?
La scuola sta per ricominciare.
Si susseguono aggiornamenti giornalieri sulla situazione generale che non fanno ben sperare rispetto a una didattica in presenza per molto tempo.
Il problema non è secondario: la scuola ha in se’, in quanto istituzione di accompagnamento alla formazione, bisogno di presenza.
La “scuola” è un termine che ricorda tanto l’edificio in cui avviene qualcosa e poco il vero valore di ciò che succede al suo interno.
La scuola è prima di tutto una comunità.
Come tale, ha al suo interno risorse ineguagliabili, se confrontate con quelle che si possono replicare davanti ad un pc.
Lo schermo rende inevitabilmente meno efficaci e interessanti le spiegazioni, meno coinvolgenti le attività di classe e quasi impossibili le attività di gruppo.
Davanti ad un computer diviene difficile anche intervenire e partecipare, soprattutto per gli alunni più timidi o fragili.
L’intervallo diventa solitario, non si accede insieme alle classi, non ci si incontra e non ci si saluta nei corridoi, non si attende insieme il suono della campanella.
Quanto conosciamo dei nostri ragazzi in questi brevi momenti di vita condivisa?
Non dimentichiamoci poi che la scuola è portata avanti da tutta una serie di collaboratori, anch’essi imprescindibili, che contribuiscono a renderla comunità, costituendo il collante che fa da tramite tra alunni, docenti e genitori.
Tutto questo rende ovvia la conclusione: come comunità, la risorsa più importante della scuola sono le persone.
Tutte le persone presenti a scuola fanno della collaborazione lo strumento più importante a loro disposizione e questo sarà sicuramente un ottimo punto per ripensare la scuola a settembre.
Non sappiamo come si svolgerà questo anno scolastico, che si prefigura difficile già in partenza.
Quello che dobbiamo tenere ben presente è che le persone, in quanto tali hanno difficoltà, fragilità, disagi e debolezze e quindi devono essere supportate.
Le persone hanno però anche tanti talenti come impegno, partecipazione, collaborazione, creatività, capacità di socializzazione che andrebbero valorizzati al meglio.
Insomma, non dimentichiamoci che la scuola è fatta di persone e a settembre dovrà superare la sua prova come una fenice.
Risorgere dalle ceneri della didattica della non-presenza e riprendere il suo ruolo di comunità, se necessario anche dalla distanza.
Articolo e foto di 2020 © Valentina Finocchiaro - 8 settembre 2020
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𝟏𝟓𝟎 𝐀𝐍𝐍𝐈 𝐃𝐈 𝐌𝐎𝐍𝐓𝐄𝐒𝐒𝐎𝐑𝐈
Il 31 agosto, per la precisione di 150 anni fa nacque una donna rivoluzionaria, destinata a segnare e rimanere nella storia.
Maria Tecla Artemisia Montessori è infatti tutt’oggi considerata una pietra miliare per chi si occupa di scuola e non solo.
In un mondo maschile, in cui le quote rosa non esistevano, seppe ed ebbe la forza di farsi strada e di coniugare le idee conservatrici e innovative ereditate dai genitori.
Fu la terza donna italiana a conseguire la laurea in Medicina nel 1896, con la specializzazione in neuropsichiatria. Nello stesso anno partecipò anche al Congresso Femminile di Berlino in rappresentanza dell’Italia, contribuendo con il suo impegno ed esempio all’emancipazione delle donne.
Ma la passione che la animava la portò anche oltre.
Tutta la sua vita fu spesa in un continuo percorso di approfondimento in campi che in apparenza, nell’attuale suddivisione dei saperi, potrebbero sembrare contrastanti quando invece sono solo complementari: materie scientifiche e materie umanistiche trovano nei suoi studi un felice incontro, tant’è che è ricordata sia come scienziata che, e soprattutto, come un’illuminata educatrice e pedagogista.
Nel 1898 si laureò anche in Filosofia.
L’opera Montessoriana non si ferma però al solo conoscere, la sua intera esistenza fu mossa anche dal fare, proseguendo una linea coerente con il suo pensiero ha attraversato gli anni politicamente peggiori degli ultimi secoli, con le Due Guerre Mondiali.
Il Metodo Montessori aveva una filosofia di base attualissima anche oggi: la libertà favorisce la creatività del bambino, creatività che è connaturata alla natura stessa delle prime fasi della vita dell’essere umano.
Compito dell’insegnante è accompagnare in questa crescita, predisporre un ambiente adatto ai bambini, “assecondare” le loro inclinazioni per condurli all’espressione del loro potenziale.
Ma io credo che il contributo più bello lo abbia lasciato per la sua attenzione a tutta l’infanzia: dalla disabilità alla povertà, nulla fu trascurato nei suoi studi e nel suo agire: questa visione d’insieme che forse oggi manca dovrebbe portare ogni insegnante a riscoprirla per progettare una Scuola migliore.
E così, 150 anni dopo, l’invito è a rileggere la sua Opera immensa, per celebrarla, come Donna, come Scienziata, come Educatrice.
Articolo di 2020 © Chiara Resenterra - 25 agosto 2020
Nelle foto: Maria Montessori
Elaborazione grafica di Chiara Resenterra
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𝐀𝐓𝐓𝐄𝐍𝐙𝐈𝐎𝐍𝐄 = 𝐅𝐎𝐂𝐔𝐒, 𝐂𝐀𝐑𝐄, 𝐂𝐀𝐔𝐓𝐈𝐎𝐍, 𝐂𝐎𝐍𝐒𝐈𝐃𝐄𝐑𝐀𝐓𝐈𝐎𝐍, 𝐄𝐘𝐄
“𝑷𝒆𝒓 𝒑𝒊𝒂𝒄𝒆𝒓𝒆, 𝒔𝒕𝒂𝒕𝒆 𝒂𝒕𝒕𝒆𝒏𝒕𝒊.”
“𝑫𝒂𝒊 𝒓𝒂𝒈𝒂𝒛𝒛𝒊, 𝒂𝒏𝒄𝒐𝒓𝒂 𝒖𝒏 𝒂𝒕𝒕𝒊𝒎𝒐 𝒅𝒊 𝒂𝒕𝒕𝒆𝒏𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆.”
“𝑺𝒖𝒐 𝒇𝒊𝒈𝒍𝒊𝒐 𝒏𝒐𝒏 𝒆̀ 𝒎𝒂𝒊 𝒂𝒕𝒕𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒊𝒏 𝒄𝒍𝒂𝒔𝒔𝒆, 𝒔𝒊 𝒅𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒐𝒈𝒏𝒊 𝒄𝒐𝒔𝒂.”
Se dovessimo stilare una serie di parole usate con più frequenza dagli insegnanti italiani, credo che la parola ATTENZIONE entrerebbe di diritto nelle prime cinque.
Effettivamente sembrerebbe un problema diffuso tra gli insegnanti quello di riuscire a catturare l’attenzione dei propri studenti, ed è una delle prime “domande esistenziali” del nostro essere professoresse che ci siamo poste quando abbiamo incominciato ad entrare nelle classi.
“𝑷𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒏𝒐𝒏 𝒔𝒕𝒂 𝒂𝒕𝒕𝒆𝒏𝒕𝒐?”
“𝑷𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒔𝒊 𝒑𝒆𝒓𝒅𝒆 𝒏𝒆𝒍 𝒔𝒖𝒐 𝒎𝒐𝒏𝒅𝒐?”
“𝑷𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒔𝒊 𝒅𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒆 𝒄𝒐𝒏 𝒊 𝒄𝒐𝒎𝒑𝒂𝒈𝒏𝒊?”
Troppo facile, secondo noi, far ricadere tutte le responsabilità solo sui discenti: diciamocelo, nella maggior parte dei casi, soprattutto nel biennio di scuola superiore (e credo ancor più nella scuola media) è di una noia mortale stare seduti per 5 o 6 ore di fila ad ascoltare professori che si alternano nelle spiegazioni.
Chiara: "𝐿𝑜 𝑎𝑚𝑚𝑒𝑡𝑡𝑜, 𝑒̀ 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑎 𝑚𝑒, 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑖𝑛𝑠𝑒𝑔𝑛𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑠𝑜𝑠𝑡𝑒𝑔𝑛𝑜, 𝑑𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑙’𝑎𝑡𝑡𝑒𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑖𝑛 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑒, 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎𝑡𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 𝑖𝑙 𝑡𝑜𝑛𝑜 𝑒𝑟𝑎 𝑡𝑟𝑜𝑝𝑝𝑜 𝑚𝑜𝑛𝑜𝑡𝑜𝑛𝑜, 𝑢𝑛𝑎 𝑠𝑜𝑡𝑡𝑖𝑙𝑒 𝑐𝑎𝑛𝑡𝑖𝑙𝑒𝑛𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑢𝑖 𝑎𝑑 𝑢𝑛 𝑐𝑒𝑟𝑡𝑜 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜, 𝑚𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑑𝑒𝑣𝑜 𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒 𝑖𝑜 𝑠𝑢𝑙𝑙’𝑜𝑛𝑑𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑚𝑖𝑒𝑖 𝑝𝑒𝑛𝑠𝑖𝑒𝑟𝑖. 𝐶𝑜𝑠𝑖̀ 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑚𝑖 𝑒̀ 𝑐𝑎𝑝𝑖𝑡𝑎𝑡𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑐𝑜𝑟𝑠𝑖 𝑑𝑖 𝑎𝑔𝑔𝑖𝑜𝑟𝑛𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜, 𝑐ℎ𝑒 𝑚𝑖 𝑒𝑟𝑜 𝑝𝑢𝑟𝑒 𝑠𝑐𝑒𝑙𝑡𝑎, 𝑞𝑢𝑖𝑛𝑑𝑖 𝑙𝑎 𝑚𝑖𝑎 𝑎𝑡𝑡𝑒𝑛𝑧𝑖𝑜𝑛𝑒 𝑎𝑣𝑟𝑒𝑏𝑏𝑒 𝑑𝑜𝑣𝑢𝑡𝑜 𝑒𝑠𝑠𝑒𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒... 𝑒𝑝𝑝𝑢𝑟𝑒 𝑛𝑜, 𝑜𝑔𝑛𝑖 𝑡𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑛𝑐𝑜𝑚𝑖𝑛𝑐𝑖𝑎𝑣𝑜 𝑎 𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑜."
Però abbiamo fatto anche esperienze opposte, ovvero di mantenimento dell’attenzione per ore, in situazioni concrete (ovvero dove oltre alla parte meramente cognitiva era previsto anche un fare), in situazioni in cui il relatore era particolarmente appassionante, e quando, banalmente, guardiamo un film o ci troviamo in circostanze in cui tutta la nostra persona è in qualche modo coinvolta.
C’è dell’altro, in una situazione come quella di lezione frontale, la capacità di attenzione dei ragazzi si attesta su un massimo di 30 minuti, dove il picco è circa intorno al 15esimo minuto. Un fattore di cui un buon insegnante dovrebbe sempre tener conto nella programmazione della sua lezione. Come dire: inutile propinare concetti importanti per 45 minuti, sapendo benissimo che non serve.
Quindi dai
“𝑷𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒏𝒐𝒏 𝒔𝒕𝒂 𝒂𝒕𝒕𝒆𝒏𝒕𝒐?”,
“𝑷𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒔𝒊 𝒑𝒆𝒓𝒅𝒆 𝒏𝒆𝒍 𝒔𝒖𝒐 𝒎𝒐𝒏𝒅𝒐?”,
“𝑷𝒆𝒓𝒄𝒉𝒆́ 𝒔𝒊 𝒅𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂𝒆 𝒄𝒐𝒏 𝒊 𝒄𝒐𝒎𝒑𝒂𝒈𝒏𝒊?”
siamo passate a cercare di capire 𝐂𝐎𝐌𝐄 possiamo fare concretamente per mantenere l’attenzione dei nostri studenti per i 100 minuti in cui dobbiamo gestire il gruppo classe. Ovviamente il tema in questione non può essere esaurito nello spazio di un post, ma si possono iniziare a compiere delle riflessioni.
1. Siamo andate a crecarci come in inglese viene tradotta la parola attenzione e il risultato ci ha colpito: si traduce con 𝐅𝐨𝐜𝐮𝐬, quindi il focalizzare, mettere in luce un aspetto che si ritiene rilevante, ma, cosa c’è di più importante dello studente stesso? Il focus è l’attenzione ad ogni singolo ragazzo, a cogliere segnali non verbali sui loro volti e nei lori micro movimenti.
Si traduce con 𝐂𝐚𝐫𝐞, ovvero, qualcosa di cui “ci importa veramente” inteso come cura: cura per i ragazzi, ma cura anche nelle parole che si scelgono per spiegare e coinvolgere. 𝐂𝐚𝐮𝐭𝐢𝐨𝐧, cioè cautela, una sorta di “maneggiare con delicatezza”... e non è quello che forse dovremmo sempre fare con tutte le persone? 𝐂𝐨𝐧𝐬𝐢𝐝𝐞𝐫𝐚𝐭𝐢𝐨𝐧: tengo in considerazione, quindi prendo in esame, tutti gli aspetti legati alla relazione tra me, i ragazzi, e l’oggetto di apprendimento, che non è esterno alla relazione comunicativa, ma ne fa parte e ha valore esattamente come i soggetti coinvolti. Infine 𝐄𝐲𝐞.
Chiara: "𝑄𝑢𝑎𝑛𝑑𝑜 ℎ𝑜 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡’𝑢𝑙𝑡𝑖𝑚𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑎 ℎ𝑜 𝑑𝑒𝑐𝑖𝑠𝑜 𝑑𝑖 𝑖𝑛𝑐𝑙𝑢𝑑𝑒𝑟𝑙𝑎 𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ 𝑚𝑖 ℎ𝑎 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎𝑡𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑡𝑜𝑟𝑛𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑢𝑛 𝑚𝑖𝑜 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑟𝑑𝑜 𝑑𝑖 𝑎𝑑𝑜𝑙𝑒𝑠𝑐𝑒𝑛𝑧𝑎: 𝑚𝑖𝑜 𝑝𝑎𝑑𝑟𝑒, 𝑠𝑝𝑒𝑠𝑠𝑜, 𝑚𝑖 𝑑𝑖𝑐𝑒𝑣𝑎 𝑖𝑛 𝑑𝑖𝑎𝑙𝑒𝑡𝑡𝑜 “𝐹𝑎 𝑏𝑎𝑙𝑎̀ 𝑙’𝑜𝑐𝑐” (𝑓𝑎𝑖 𝑏𝑎𝑙𝑙𝑎𝑟𝑒 𝑙’𝑜𝑐𝑐ℎ𝑖𝑜). 𝑂𝑣𝑣𝑒𝑟𝑜 𝑠𝑡𝑎𝑖 𝑎𝑡𝑡𝑒𝑛𝑡𝑎 𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑛𝑡𝑜 𝑡𝑖 𝑠𝑢𝑐𝑐𝑒𝑑𝑒 𝑖𝑛𝑡𝑜𝑟𝑛𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝑒𝑣𝑖𝑡𝑎𝑟𝑒 𝑠𝑖𝑡𝑢𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑖𝑐𝑜𝑙𝑜."
Dov’è il pericolo qui? Di parlare ad un muro, ad una serie di “occhi” persi nel nulla, quando l’obiettivo è che questi occhi siano vivi, brillino di coinvolgimento.
2. Abbiamo capito da subito, dalle prime lezioni in aula, che per tenere l’attenzione bisogna essere delle brave 𝐏𝐞𝐫𝐟𝐨𝐫𝐦𝐞𝐫: in pratica ogni volta che entriamo in classe ci sentiamo un po’ come se dovessimo andare in scena. E per questo si cerca di alternare i toni di voce, di muoversi tra i banchi, di fornire stimoli... insomma, una sorta di recitazione. E questo fattore l’abbiamo appreso riflettendo sulla nostra esperienza: chi erano, e sono, le persone che non solo catturano, ma riescono a far sì che prolunghiamo i nostrii tempi di attenzione? Sono coloro che in un modo o nell’altro ci trasmettono quel qualcosa per cui si intravede passione ma anche preparazione e studio del non verbale. Coloro che in un certo senso ci affascinano e ci trasportano nel loro mondo.
3. 𝐌𝐮𝐨𝐯𝐞𝐫𝐬𝐢: non si può pretendere che i ragazzi stiano seduti, immobili, per un’ora nei loro banchi. E’ quasi scontato che perdano l’attenzione! Siamo prof fiscali sull’eliminazione fisica di alcuni distrattori dai tavoli: telefoni, penne troppo variopinte o bizzarre, smalti, trucchi e specchietti (sì, ci sono anche quelli negli astucci delle nostre adolescenti)... ma non siamo fiscali se mentre parliamo qualcuno di loro sente il bisogno di disegnare, non siamo fiscali se ci chiede di andare al calorifero e ascoltare da lì la lezione. Non siamo fiscali e proponiamo sempre una “pausa programmata e organizzata”, ovvero un momento strutturato da noi per cui ci si può muovere nell’aula, chi vuole, o discutere, o scrivere alla lavagna a turno. Siamo noi che, senza che loro lo sappiano, li facciamo muovere. Quindi, oltre alle parole, il “𝑓𝑎𝑟𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑑𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑟𝑒𝑡𝑜”.
4. Infine. Chiediamo attenzione... 𝐦𝐚 𝐧𝐨𝐢 𝐝𝐢𝐚𝐦𝐨 𝐚𝐭𝐭𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 ad ogni parola che dicono? Ad ogni domanda che ci lanciano? Ci accorgiamo sempre della mano alzata? Mentre interroghiamo... siamo davvero sicuri che li stiamo ascoltando con attenzione? Ecco, siamo convinte che la scuola debba essere assolutamente un’organizzazione democratica: tutti dobbiamo stare alle stesse regole che ci siamo dati come gruppo sociale. Se ti do attenzione, la pretendo. E i ragazzi questo lo capiscono, Prima ancora delle parole arrivano le azioni, questa coerenza continua che chiedono al mondo adulto.
‘Na fatica, diciamocelo... ma poi si prende il ritmo e tutto diventa più facile.
E così, con poco, ti accorgi che in fondo, sei tu insegnante, che devi stare attenta, che devi aumentare i livelli di attenzione, intensiva e selettiva.
Ma fa parte del gioco.
Articolo di 2020 © Chiara Resenterra - © Valentina Finocchiaro - 6 agosto 2020
Nelle foto: Chiara e Valentina le nostre esperte 14-19 anni
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SI', VIAGGIARE
Dopo tre mesi di reclusione e didattica a distanza, finalmente per i ragazzi arriva l’ultimo giorno di scuola.
Si spalancano nuovamente le porte delle possibilità.
Scegliere cosa fare del proprio tempo e perché no? Viaggiare.
Quanto è formativo per uno studente, specialmente dopo quanto vissuto quest’anno, uscire dalla propria zona di comfort e lanciarsi nel mondo?
Ma facciamo un passo indietro.
Il biennio delle superiori rappresenta un momento di formazione per gli alunni, in cui si pongono solide basi, ovvero si creano gli strumenti necessari ad affrontare i tre anni che precedono la maturità (o almeno in questa prospettiva il percorso didattico dovrebbe divenire efficace).
In prima, gli studenti sono ancora abbastanza immaturi e se si è fortunati una parte della classe ha già abbastanza autonomia e consapevolezza, per capire che non si scappa dallo studio ne’ dai “compiti”. Per gli altri, il lavoro dei docenti dovrà essere un’opera di convincimento, che passi anche dallo stimolo per creare la curiosità: sarà poi questa che completerà l’opera.
Quando all’inizio della classe seconda però, mi accingo a spiegare il testo argomentativo, vorrei mettermi le mani nei capelli, cacciare un urlo: “Stooop!” e passare parola al collega del triennio. Questo accade di solito perché sistematicamente, nel silenzio che precede la comunicazione della data della verifica scritta si palesa uno studente.
Sì, proprio quello alla “ultimo banco”, che rimane nascosto dietro l’astuccio per tutto il tempo ed evita accuratamente di chiedere spiegazioni.
Proprio lui, dopo infinite ore di tabelle da compilare per compito, correzioni ed esercizi alla lavagna, pareri contrastanti e discussioni alle volte anche piuttosto concitate, alle soglie della prova scritta valutata, finalmente si decide a confessare e dice:
“Profe, ma io non ho capito!”
E via di nuovo si ricomincia, in cerca di spunti, esercizi, video ed esempi improbabili, per cercare di rendere chiaro cosa vogliano dire i termini “argomentare” e “confutare”.
Sembra che i ragazzi facciano fatica soprattutto a mettersi nei panni del tizio che compare a metà tema e potrebbe avere a che ridire con la tesi appena discussa e dimostrata.
Insomma, i panni degli altri stanno sempre un po’ stretti.
Un esercizio particolarmente utile, sperimentato con successo anche durante la DAD è stato quello del dibattito.
Non sempre i ragazzi si trovano a dover difendere un’opinione in linea con la propria ma nell’ottica della competizione, si impegnano comunque per arrivare al risultato finale e vincere la gara.
Così lo sforzo di capire chi non la pensa come loro, passa quasi in secondo piano, diviene più facile.
Uno dei temi argomentativi che assegno spesso negli ultimi anni, riguarda l’educazione.
Sulla scia di un documentario scoperto per caso, smanettando sul telefono accovacciata su un divanetto davanti al mare delle Fiji, chiedo ai ragazzi se è possibile crescere e imparare non nelle aule ma nella scuola della vita: viaggiando.
Il documentario parla di una famiglia di surfisti hawaiani (i Goodwin), che crescono i due figli piccoli girando per il mondo.
I ragazzi sono affascinati, quasi increduli e molto dubbiosi, finché non mostro l’esempio concreto di una ragazza bergamasca che ha fatto questa scelta.
E allora la possibilità diventa realtà e gli studenti cominciano a guardare il mondo in modo diverso, a voler sapere come funzionano le cose in altri posti, come vivono in altri paesi.
Alcuni scelgono di intraprendere un viaggio con gli amici, altri di concordare con i genitori una vacanza studio (chiaramente con vari esiti!).
In ogni caso, decidono di uscire di casa e di mettersi non solo nei panni degli altri ma nei panni di nuovi sé, aperti non solo ad argomentare le proprie opinioni e a confutare quelle degli altri ma anche a mettere in gioco e cambiare se stessi.
In foto: un fotogramma dal trailer del documentario 𝑮𝒊𝒗𝒆𝒏
Articolo di 2020 © Valentina Finocchiaro - 21 luglio2020
𝐐𝐔𝐀𝐍𝐃𝐎 𝐋’𝐀𝐋𝐋𝐈𝐄𝐕𝐎 𝐒𝐔𝐏𝐄𝐑𝐀 𝐈𝐋 𝐌𝐀𝐄𝐒𝐓𝐑𝐎
Da insegnante (detta anche “profe” per i miei studenti bergamaschi, “prof” in credo tutto il resto d’Italia) posso dire che questa maturità mi ha regalato non pochi brividi e non poche lacrime. Il motivo è semplice: i 9 studenti e studentesse che ho accompagnato in questo viaggio durato due anni nelle Tecniche di Comunicazione, ha portato più frutti di quello che immaginavo.
E mi sono chiesta come è potuto succedere questo piccolo miracolo?
Premessa indispensabile: lavoro (anche perché ho più classi e indirizzi) in un Istituto Alberghiero e l’indirizzo Accoglienza Turistica ha solo nove alunni.
Dato di partenza due: ho sempre avuto davvero la libertà di impostare la didattica a modo mio.
Dato tre: abbiamo sperimentato un approccio alla Maturità unico, dopo anni che, rileggendo a posteriori, ha messo in luce un aspetto positivo fondamentale, ovvero la sostituzione della seconda prova con un elaborato progettuale su cui i ragazzi hanno avuto il giusto tempo per riflettere, rielaborare, pensare e creare. Parole che già di per sé suonano quasi innovative se si pensa al nozionismo e al fattore tempo che impone a tutti, livellandoli, di eseguire un compito complesso in poche ore.
In questo caso, i ragazzi dovevano preparare un elaborato multimediale in cui, dato un titolo, dovevano sviluppare soprattutto un progetto innovativo, unendo le competenze attese nelle materie di indirizzo per poi esporlo alla Commissione.
I ragazzi hanno fatto proprio, ognuno con la propria passione e sensibilità, il “compito” e così abbiamo potuto assistere all’esposizione di progetti credibili e già attualizzabili, che nulla hanno di astratto, ma possono tranquillamente essere già spesi nel mondo del lavoro.
Quale soddisfazione più grande? Brillavano più gli occhi a me che non a loro. Perché sono riusciti ad unire le competenze di tre singole materie (diritto/economia, accoglienza turistica e tecniche della comunicazione) e creare qualcosa che andasse oltre la banale somma delle parti e noi tre professori e, contemporaneamente arricchisse anche noi, come professionisti e come persone.
E così, una ragazza ha portato un progetto sulla riqualificazione delle 5 terre in Liguria, puntando su un target giovane, come un viaggio fattibile, quest’anno al termine della maturità, alla riscoperta dei sentieri che uniscono un panorama mozzafiato, sdoganando il luogo comune per cui la Liguria è una località per pensionati e introducendo elementi di valorizzazione per attirare anche i giovani.
Un ragazzo, che già lavora in un’azienda agricola e agriturismo a gestione familiare, ha “utilizzato” il progetto e il tempo della maturità, per creare un piano d’azione che permettesse alla sua famiglia di ripartire e non fallire in questa situazione di Covid e post Covid, argomentando e confrontandosi con le domande e i dubbi che venivano espressi.
So che farà ripartire la sua azienda.
E un’altra studentessa ancora, ha capito per se stessa che nella vita vorrà svolgere un’attività di DMO (Destination Marketing Organization) per promuovere il turismo italiano partendo dagli angoli nascosti, come il Paese in cui vive, che di turistico, ad oggi, sembrerebbe non avere nulla.
Un’altra ragazza ha elaborato un viaggio in Messico, ma non di quelli che puoi trovare nei cataloghi, oppure on line, un progetto che unisce un pacchetto personalizzato, che le darà spazio per fare la tour organizer, per rivoluzionare il concetto di turismo così come è inteso oggi. (Ovviamente dopo l’università.)
Ci può essere (ribadisco) per un professore, soddisfazione più grande?
Quanta Bellezza!
Quanta Passione!
Quanto Lavoro!
Come siamo arrivati a questo?
I fattori che contribuiscono al successo scolastico di uno studente sono molteplici, complessi tanto quanto è complessa la natura umana e quindi la storia di ogni ragazzo.
Con gli 𝐒𝐦𝐚𝐧𝐢𝐚𝐒𝐜𝐡𝐨𝐨𝐥, un po’ alla volta, io e Valentina (che già in precedenti articoli nei suoi SmaniaMusing ha iniziato a toccare il tema “scuola” e ad avviare una riflessione su di essa) vorremmo iniziare ed inoltrarci in un cammino che possa mettere in luce e analizzare questa complessità, un cammino in divenire che punta a leggere la scuola con spirito critico e innovativo, lasciando aperto il dibattito.
La scuola è un percorso che inizia molto prima delle superiori delle quali noi principalmente di occupiamo, troverete quindi anche altre "penne" in un futuro molto prossimo, che ci prenderanno per mano per confrontarci anche sulla scuola dalla prima infanzia alla preadolescenza.
[Siamo inclusivi e ci piacerebbe non trascurare nessuna fascia d'età.]
Ma come punto di partenza, come prima riflessione, credo che ci sia lo sguardo, lo sguardo degli insegnanti su quel mondo contradditorio che è l’adolescenza: qual è il nostro sguardo sui ragazzi?
E’ uno sguardo anche rivolto verso noi stessi, il nostro essere adulti come modelli raggiungibili, e che quindi possono sbagliare. Come viviamo il nostro lavoro, la motivazione che ci spinge, ogni giorno, ad alzarci presto e ad “andare in scena” davanti ad un mini pubblico di persone, che devi riuscire ad affascinare.
Infine uno sguardo allargato, sulle relazioni tra colleghi e con l’Altro, il Diverso da me, per creare quell’equilibrio che porta a superare il concetto di “Io insegno, voi imparate”, “Io so la mia materia e sono geloso del mio sapere”, per percepirsi invece come una squadra.
Un po’ come accade nello sport: ognuno ha un suo ruolo, ma è il team che vince o perde. In questo caso in gioco c’è la grande Sfida Educativa, che nei tempi del post Covid è più che mai attuale, e ci dovrebbe collettivamente spingere a ripensare e a ripensarci.
Ps. Ai ragazzi che finalmente hanno superato la Maturità: fate un viaggio, fatelo davvero e comunque, anche partendo dalla nostra splendida Italia, camminando, girandovela in lungo e in largo per scoprire che a volte, ciò che è vicino ha un Valore nascosto affascinante quanto l’esotico
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La felicità è quasi sempre più vicina di quanto realmente crediamo.
Articolo di 2020 © Chiara Resenterra e ©Valentina Finocchiaro - 14 luglio2020
Foto di © Chiara Resenterra con frammenti delle slide del progetto di maturità di Dania Dolci